Ancona, 21 gennaio 2013 - SUO PADRE, il maresciallo dei carabinieri Domenico Ricci, è stato trucidato in via Fani il 16 marzo del 1978, dal commando delle Brigate Rosse che rapì Aldo Moro.
 

Giovanni Ricci, cosa ha provato nel vedere l’ultimo saluto all’ex brigatista Prospero Gallinari, uno dei protagonisti di quel rapimento?
«Chi è cristiano e quindi credente pensa e riflette. Ma ciò che più mi ha angosciato è il modus vivendi delle esequie, cioè la tragicità di quel funerale».
Si spieghi meglio.
«Alle esequie vi hanno preso parte figure di irriducibili, cioè di chi vuole perseguire ideali sbagliati. Non ho visto ex terroristi che si sono dissociati, nonostante la loro ideologia sia completamente fallita».
Quest’anno ricorre il 35esimo anniversario dell’eccidio della scorta e della morte dello statista democristiano.
«Da allora si sono svolti 6 processi sul ‘caso Moro’ e migliaia di processi alle Brigate Rosse. E il dolore per il sacrificio di mio padre resta sempre molto vivo. Ma queste persone hanno perso, non una guerra ma una battaglia. E lo voglio ribadire: si è trattata solo di una battaglia. Verso la quale c’è stata una resistenza forte della società civile, di tutto il popolo italiano».
Quale impressione ha avuto nel vedere al funerale di Gallinari i pugni chiusi e alcuni giovani che di quegli anni hanno vissuto poco o niente?
«Solo angoscia, lo ripeto. Perché si continua ad usare la falsa bandiera dell’ideologia. Chi non ha conosciuto quella fase storica deve capire che sono ideologie di morte completamente fallite».
A Coviolo c’erano nomi di spicco degli Anni di piombo.
«In tutto questo ci leggo solo un sentimento di solitudine. Un giorno dovranno per forza comprendere che le loro battaglie sono state inutili e dolorose. L’Italia intera ha reagito in quella fase storica creando un muro invalicabile. Ribadendo innanzitutto che non si trattava di una guerra, nonostante l’ideologia brigatista cercasse in ogni modo di imporre questo pensiero».
Cosa ricorda di quel 16 marzo 1978?
«Dolore, smarrimento. Mio padre non c’era più. Eravamo soli, ci veniva a mancare una persona straordinaria, il suo affetto e la sua presenza. E il tempo non ha curato la ferita, è rimasta sempre aperta. Perciò capisce quale può essere il mio stato d’animo nel vedere le immagini di Coviolo. Sono trascorsi 35 anni ma quelle scene di Reggio Emilia mi hanno riportato indietro nel tempo».
Aveva 12 anni, vero?
«Dovevo ancora compierli. Oggi ne ho 47».

di Sergio Federici