Ancona, 30 agosto 2013 - Le stragi di civili innocenti perpetrate da oltre due anni dal regime del presidente Bashar al-Assad, una guerra civile cui finora la comunità internazionale ha assistito senza trovare soluzioni diplomatiche in grado di porle termine.
 

E’ la straziante situazione in cui versa la Siria, sconvolta da un conflitto intestino. Un confronto impari tra l’esercito di Assad e un popolo animato dagli stessi principi ispiratori della cosiddetta «primavera araba». Asmae Dachan è rientrata mercoledì. Un viaggio tra la Turchia e il suo Paese d’origine per raccontare ciò che ha vissuto a stretto contatto con un popolo in fuga.
 

«Sono tornata in Italia e sto rientrando a casa — scrive sulla sua pagina di Facebook — Ho lasciato una parte di me in Siria, tra quei bambini che da quasi tre anni vivono nel terrore quotidiano, tra quelle donne che non hanno più lacrime, quegli uomini che lottano per proteggere i propri figli. So come sono partita, ma non so come sto tornando. Ho guardato la sofferenza negli occhi, ho visto morti, sangue, macerie. Ho conosciuto la paura e l’ansia. Ho visto la dignità e il coraggio. Ho visto la Siria e la sua gente, la mia terra e il mio popolo. Torno alla vita di ogni giorno con il lutto nel cuore...».


Asmae dachan, come ha vissuto il 21 agosto, il giorno del massacro con il gas nervino?
«Ero in Turchia. Stavo andando in visita al campo profughi siriano di Bosin. Lì mi ha accolto il responsabile del campo che si è scusato e mi ha spiegato che molti rifugiati erano originari della zona colpita dal gas e che erano in uno stato emotivo tale da non poter reggere il confronto con un giornalista».
 

Pensa di tornare in Siria?
«Sono venuta a contatto con così tante storie e realtà da rendermi conto che un viaggio non basta. Vorrei tornare presto. Ma anche riuscire a raccogliere degli aiuti. Perché la situazione è allo stremo.
Quando ero in Turchia c’è giunta notizia che vicino al grande campo di Atma s’erano accampate 4mila persone in fuga dalla periferia di Hamah: oltre 700 km a piedi, diversi giorni tra le montagne per trovare le strade più sicure ed evitare i cecchini, gente che temeva un altro attacco con il gas».
 

Quanto è stato difficile il suo viaggio?
«Tanto. Mi sono seduta davanti a madri che in lacrime mi hanno raccontato di aver raccolto i brandelli dei propri figli. Ad Aleppo ho assistito all’estrazione del corpo di una donna da una palazzina distrutta giorni prima, i volontari scavavano a mani nude dopo una settimana. Un conto è scrivere a casa, altro è vedere il sangue, la gente colpita dai cecchini, i mutilati, respirare ogni giorno l’odore della morte... Ma ci sono stati anche momenti bellissimi».
 

Vale a dire?
«La possibilità di ammirare la dignità e il coraggio del mio popolo. E la sua ospitalità che la guerra non ha intaccato. Poi i segnali di speranza: ho conosciuto giovani donne che cercano di reagire alla situazione insegnando a leggere e a scrivere ai bambini».
 

Qual è il suo punto di vista personale sulla situazione?
«Sono tornata con un grande dolore. Sono 29 mesi che la gente muore, tutti i giorni. Al di là del conflitto, che non si risolverà in tempi brevi, è terribile vedere bambini privati dei loro diritti elementari, che non vanno più a scuola, che di notte non dormono più per paura delle bombe».
 

Cosa pensa del possibile intervento armato?
«Non vedo l’elemento di novità se non che le bombe saranno firmate diversamente. La comunità internazionale si sveglia ora. E i bombardamenti in Siria ci sono da due anni. I siriani da marzo 2011 hanno chiesto una no fly zone e corridoi umanitari. Invano».
 

Non teme che la Siria sia consegnata a un partito estremista?
«Che l’estremismo ci sia è un dato di fatto. Ma preoccupa di più la grave perdita di vite umane. Mi preoccupano i bambini che vivono solo la morte e non vanno a scuola, un milione di bambini profughi, senza futuro. Assad farnetica, ma in Siria non c’è nessun fantasma. Solo un regime che spara contro il suo popolo».
 

Quale percorso auspica per provare a mettere fine al massacro?
«L’immediata cessazione dei bombardamenti, dei sequestri e di ogni iniziativa armata. E spero anche che si aprano presto le porte della città di Homs, sotto assedio da oltre un anno».

Giuseppe Poli