Montalto Marche (Ascoli Piceno), 16 aprile 2012 – Incontriamo padre Mario Bartolini nella sacrestia della concattedrale di Montalto, nell’ora di attesa tra una messa e l’altra. Da trentaquattro anni in Perù, da sei assente dall’Italia, per il missionario Passionista di Valcinante di Roccafluvione, questa è solo una delle tante tappe che affronterà nella sua parentesi italiana per sensibilizzare la gente di qui sulle problematiche relative allo sfruttamento delle risorse e dei popoli dell’Amazzonia. A giugno ritornerà, da uomo libero, alla sua parrocchia di Barranquita, piccola cittadina del nord Perù, per riprendere le sue battaglie in difesa dei diritti degli indios.

Padre Mario, com’è stato tornare a casa dopo tutto quello che è successo?
“Innanzitutto devo ringraziare il Signore e tutte le persone che in un modo o nell’altro hanno fatto sì che potessi tornare, dato che per quanto riguarda i processi siamo stati assolti tutti”.

Un processo in cui, dopo mesi di arresti domiciliari e l’accusa di istigazione alla rivolta, ha rischiato fino a 11 anni di carcere e l’espulsione dal Perù, che avrebbe significato abbandonare le lotte di una vita.
“Il nostro processo era la conseguenza della protesta del 2009. Con l’assoluzione si chiude questo periodo, ma le problematiche restano ancora lì, e sono la difesa della terra, dei boschi, dell’acqua”.

Cos’è cambiato dopo le proteste?
“Alcuni dei decreti che consentivano alle multinazionali di sfruttare a piacimento le risorse dell’Amazzonia sono stati derogati dal Congresso. Però i decreti contro l’Amazzonia sono centinaia, di cui moltissimi incostituzionali. Ad ogni modo, la protesta ha significato un cambio forte nella politica interna peruviana: prima gli indigeni non esistevano, oggi i governanti sanno che devono tenerne conto, sanno che prima di varare certe leggi devono ottenere il loro consenso, e che devono tenere presente la legislazione internazionale”.

Quanto è stata estesa la protesta per i diritti degli abitanti dell’amazzonia?
“In tutto, ci sono state più di 240 agitazioni sociali in tutta la regione di Amazonas. Tutte le comunità indigene si sono organizzate, perché le problematiche sono state identiche ovunque e si sono manifestate nello stesso tempo”.

Ci sono stati anche scontri con molti morti, secondo alcune fonti ci sono state decine di vittime.
“I morti ci sono stati a Bagua, non si sa quanti, il governo ha tentato di coprire tutto in mille modi. Le proteste di Barranquita si sono mantenute pacifiche, e sono terminate con la deroga a due micidiali decreti anti Amazzonia”.

I mezzi di informazione che ruolo hanno avuto nel diffondere e far conoscere all’opinione pubblica le ragioni della protesta?
“Nella regione amazzonica non c’è internet, le notizie viaggiano per lo più via radio, la diffusione è più lenta. E poi, c’è la stampa libera, e c’è la stampa al servizio del sistema. In questo mondo globalizzato, però, non esistono problemi isolati, tutto ha rilevanza mondiale. Per questo è stato possibile portare avanti la protesta con successo e il mio ringraziamento va a tutti coloro che hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione amazzonica”.

Lei non è l’unico missionario impegnato in quella regione al fianco degli indigeni. Che vuol dire oggi fare il missionario, lottare in difesa di certi diritti?
“Vuol dire mettere a rischio la propria vita, se uno vuole vivere il Vangelo. Se invece uno decide di adeguarsi al sistema, allora non rischia nulla”.
 

Lei è stato anche minacciato di morte durante gli anni trascorsi al fianco dei popoli indigeni.
“Minacciato più di una volta, hanno anche tentato di uccidermi”.

Ha saputo chi la voleva morto?
“So chi ha cercato di uccidermi, so chi erano i mandanti. Quando poi, tempo dopo, questa persona è morta, i mandanti di allora hanno cercato di accusare me della sua morte. Questi sono i mezzi che usa il sistema, queste le subdole vie che adotta per far fuori chi si oppone ad esso”.

 

di Marco Ripani