Strage di Appignano,"l'omicidio stradale è una vittoria. Ma i nostri figli non torneranno"

Nel 2007 un rom ubriaco uccise quattro ragazzi. Un papà: "Non perdono"

Luigi Corradetti, papà di Davide, una delle vittime della strage di Appignano

Luigi Corradetti, papà di Davide, una delle vittime della strage di Appignano

Appignano (Ascoli Piceno), 25 aprile 2017 - Sono trascorsi dieci anni dalla strage di Appignano, in provincia di Ascoli Piceno. Un giovane rom, Marco Ahmetovic, 22 anni, alla guida di un furgone falciò nella notte tra il 23 e il 24 aprile cinque ragazzi: quattro morirono, uno finì gravissimo in ospedale. L’investitore, originario di Caserta, era completamente ubriaco e fu arrestato. I ragazzi avevano lasciato Appignano alla volta di Castel di Lama, per andare a prendere un gelato, erano in sella ai loro ciclomotori, quando il furgone piombò su di loro e li uccise. Le vittime erano Eleonora Allevi, 19 anni, Davide Corradetti, 16 anni, Danilo Traini, 17 anni. L’altro ragazzo Alex Luciani, 15 anni, spirò durante il trasporto all’ospedale. Salvo per miracolo Leonardo Allevi, 16 anni, fratello di Eleonora, che riportò ferite guaribili in trenta giorni.

I ragazzi viaggiavano sugli scooter, lungo la strada provinciale Appignanese, quando il furgone invase la corsia opposta scontrandosi frontalmente con i motorini. Un impatto devastante, che scatenò l’inferno, alcuni dei motorini presero fuoco. Subito scattò l’allarme, ma quando giunsero i soccorritori purtroppo c’era poco da fare, tre dei giovani erano morti, mentre un quarto fu trasportato in ospedale dove spirò. Ahmetovic venne arrestato, piantonato in ospedale perché durante l’incidente aveva riportato ferite. In Cassazione venne confermata la condanna a sei anni, sei mesi e 20 giorni di reclusione. Oggi è libero e si è rifatto una vita. Ahmetovic viveva in un accampamento. Un insediamento di 50 persone che da tempo era sotto la lente di ingrandimento per una serie di polemiche che avevano inasprito gli animi. La comunità rom era entrata più volte in conflitto con la piccola comunità appignanense, 2000 anime appena. Alcuni giorni dopo l’accampamento viene dato alla fiamme. 

A 10 anni dalla strage di Appignano si prova la stessa pena e lo stesso dolore per quella tragedia che ha visto morire quattro angeli inconsapevoli: Eleonora, Alex, Davide e Danilo. Nel paese quei terribili momenti sono ancora vivi e fanno male. Purtroppo solo alcune settimane fa il papà di uno dei ragazzi, Luciano Traini è morto. Un dolore che si aggiunge al dolore. Luigi Corradetti, (ex carabiniere) papà di Davide, ricorda quei momenti. Un racconto agghiacciante, intenso, rotto solo dalla commozione. 

Sono trascorsi dieci lunghi anni dall’incidente, cosa prova?  «La vita di quattro famiglie si è fermata alle 22 di quella maledetta notte. Ricordo ancora, mi chiamò mia sorella. Disse che Davide aveva avuto un incidente. Forse a causa del mio lavoro ho pensato subito al peggio. Ho sperato fino all’ultimo che non fosse morto, ma quando sono giunto sul posto e ho visto quell’inferno ho capito che non c’era più nulla da fare. Le autoambulanze, le forze dell’ordine, le urla, il fuoco, la gente e la confusione. Nessuno sapeva cosa dirci, poi ho visto le vittime. E’ stato l’inizio dell’inferno. Immagini che sono impresse nella mia memoria, che non si riescono a cancellare». 

Cosa ha provato?  «Pensavo di non farcela. Quattro ragazzi sono una generazione in un paese piccolo come Appignano. Ricordo ancora il senso di vuoto, il dolore delle altre famiglie. Non dimenticherò mai lo strazio della nonna di Eleonora. Tutto è cambiato. Tornare a casa e non vedere più Davide, non sentire la sua voce è stato straziante. Oggi avrebbe 26 anni, forse si sarebbe sposato. Chissà». 

Come si può ricominciare a vivere dopo un’esperienza così drammatica?  «Non lo so, c’è una forza che ci spinge avanti, una forza che non ci abbandona. Perdere un figlio è una tragedia immane, da cui è difficile riprendersi. E’ un fatto innaturale. Ho trovato la forza grazie alla famiglia e facendo volontariato. In questi giorni sono stato a trovare una ragazza che sta male. Trovo che sia importante aiutare chi ha bisogno. I suoi occhi, la sua speranza mi hanno dato forza».

Ahmetovic è già libero, cosa prova?  «Ho visto le sue foto con un bicchiere in mano, non mi stupisco. Non gli importava niente allora di ciò che era accaduto, perché dovrebbe pensarci oggi? Non ho mai visto pentimento nei suoi occhi». 

Lei invece pensa ad un perdono?  «No. A quella persona io non voglio proprio pensare. E’ l’indifferenza il sentimento che provo». 

La vostra caparbietà ha contribuito a rendere l’omicidio stradale una realtà?  «Non è stato semplice, dall’incidente in poi non ci siamo dati pace. Abbiamo partecipato a trasmissioni, manifestazioni, perché volevamo giustizia per i nostri figli. Avevamo tanto dolore, ma sapevamo che dovevamo farlo per loro e per chi si sarebbe trovato nella nostra stessa situazione. Ci siamo resi conto in alcuni momenti, che non tutti ci sostenevano in questa battaglia, ma ci siamo fatti forza. Volevamo pene più severe per chi guida sotto l’effetto di alcolici e droghe. Chi assume queste sostanze sa che può fare del male. Sei anni, sei mesi e 20 giorni per la morte di quattro bravi giovani sono davvero pochi. Lui si è rifatta la sua vita, i nostri figli non ci sono più. Tutto questo fa male». 

Qual è stato il momento più difficile in questa battaglia?  «La percezione che nonostante il nostro impegno niente cambiasse. Poi la svolta, finalmente l’omicidio stradale è diventato legge. Sicuramente non ci restituirà i nostri figli, ma abbiamo la consapevolezza di aver combattuto per qualcosa di giusto».