Parolisi: "Se pensano che io sia il colpevole, perché vogliono abbassarmi la pena?"

L'ex caporalmaggiore condannato per l'omicidio della moglie Melania Rea parla dal carcere, intanto i suoi avvocati preparano un nuovo ricorso

Salvatore Parolisi

Salvatore Parolisi

Teramo, 12 febbraio 2015 - «Ma se pensano che il colpevole sia io, perché mi vogliono ridurre la condanna». Ha detto così Salvatore Parolisi al suo avvocato Federica Benguardato, che nella giornata di ieri l’ha incontrato dietro le sbarre del carcere di Teramo, per discutere dell’ultimo atto della sua vicenda giudiziaria. O meglio, di quello che è «quasi» l’ultimo atto, visto che bisognerà tornare davanti alla Corte d’Appello di Perugia per discutere della riformulazione della quantità della pena, al netto dell’aggravante di crudeltà, insussistente per i giudici della Prima Sezione della Corte di Cassazione. Ed è dietro questo particolare che si nasconde l’ennesimo punto interrogativo, questa volta tutto tecnico, dell’omicidio di Melania Rea, per il quale - e questa è una sentenza definitva - il colpevole è stato riconosciuto in suo marito, Salvatore Parolisi.

«L’omicidio è un atto crudele di per sé – spiega l’avvocato Benguardato –, per questo viene punito in maniera piuttosto pesante. Su questa base diversi giuristi stanno discutendo sull’opportunità di cancellare la crudeltà dalle aggravanti previste dal codice».  Una delle strategie difensive degli avvocati di Parolisi - in tutto le osservazioni presentate in Cassazione erano sedici - riguardava proprio l’aggravante della crudeltà, e, al dunque, questa tesi è riuscita a fare breccia, con l’entità della condanna che dovrà scendere di un bel po’: la prossima volta gli anni di prigione si aggireranno tra i 16 e i 24. 

«In termini generali – prosegue la Benguardato – la Cassazione riconosce la crudeltà non per il numero di colpi inferti, ma per la particolare sofferenza che si è arrecata alla vittima. Nel caso di Salvatore si è parlato di ‘parossistico furore’, cioè di delitto d’impeto, o di raputs come pure si è impropriamente detto. La differenza non sta nel fatto che vengano date due o trentacinque coltellate, perché era chiara solo la volontà di uccidere, non quella di causare sofferenza nella vittima». E qui l’avvocato cita anche un passaggio della prima ordinanza di arresto, quella firmata dall’allora gip del Tribunale di Ascoli, Carlo Calvaresi: «Lui sostenne che Melania non morì per lesioni agli organi vitali, ma per dissanguamento. Questo vuol dire che Parolisi, nel caso, si sarebbe fermato a un certo punto, quando cioè avrebbe realizzato quello che stava facendo. È la dimostrazione che non ci fu crudeltà. Lete, e anche a lui interessa poco sue furono coltellate confuse, tirate una via l’altra, appunto dettate dall’impeto». 

Salvatore, in prigione, continua a ritenersi innocente e poco gli interessa dell’entità della pena quando, comunque, si trova davanti a una sentenza definitiva di colpevolezza. «Quando diciamo che andremo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo – conclude l’avvocato Benguardato –, a nostro giudizio durante i processi a carico di Parolisi non sono state seguite le regole, e le regole devono essere una garanzia per chiunque».