Morte di Alice Gruppioni, il marito: "Nessuna pena ci consola, i veri condannati siamo noi"

Christian: «Però Campbell deve restare dentro...»

Alice Gruppioni, di Pianoro,  con il marito Christian Casadei, architetto  di Cesena

Alice Gruppioni, di Pianoro, con il marito Christian Casadei, architetto di Cesena

Bologna, 7 giugno 2015 - CHRISTIAN Casadei, questo verdetto la soddisfa? «Ho sempre sperato che fosse fatta giustizia – dice il marito di Alice Gruppioni –. Non mi aspettavo una pena in particolare, tocca ai giudici americani attribuire le colpe ed emettere le sentenze. Per me va bene così». 

Sì, ma è deluso dal fatto che l’assassino, Nathan Campbell, sia stato condannato per omicidio di secondo grado, reato che esclude la pena di morte, invece che per omicidio di primo grado come aveva chiesto l’accusa? «Non voglio entrare nel merito dei tecnicismi giuridici. Ripeto, va bene così. Quando ho ricevuto la notizia è riaffiorato in me il dolore di quei giorni. Ci aspettavamo una pena giusta, adeguata alla gravità dei fatti. E per quell’uomo nessuna pena basterebbe, nemmeno la pena di morte, tanto i veri condannati siamo noi».

La vostra vita senza Alice. «Certo. La nostra è la condanna più grave possibile. Per noi la sofferenza non finirà mai, pagheremo per tutta la vita. Almeno però quell’uomo non potrà più fare male a nessuno».

Il 5 agosto si saprà l’entità della condanna. La giuria ha chiesto l’ergastolo... «Sì, deciderà il giudice. E mi auguro che, se ergastolo sarà, sarà davvero una pena certa. Non voglio vederlo fuori fra qualche anno per buona condotta. Sono comunque fiducioso che negli Stati Uniti non accadrà. Il problema è un altro». 

Quale? «La condanna dell’assassino era doverosa e lui pagherà, ok. Però in questa vicenda ci sono altre responsabilità. Deve pagare anche chi ha permesso che tutto ciò accadesse; chi non ha impedito a quell’uomo di piombare sulla gente con l’auto; chi non ha messo in sicurezza il lungomare di Venice Beach».

Voi, proprio su questo punto, avete fatto causa alla contea e alla città di Los Angeles? «Se ne discuterà in tribunale dopo l’estate. Il punto è che da allora nulla è cambiato. A maggio sono andato a Los Angeles per testimoniare al processo e sono tornato nel punto in cui è avvenuto l’omicidio. È rimasto tutto come prima. Chiunque potrebbe entrare con l’auto nella camminata del lungomare, che nelle guide turistiche viene descritta come un luna park, e rifare una strage. È pazzesco. E questo aumenta ancora di più il nostro dolore». 

Voi chiedete di rendere quel luogo sicuro. «È quello che vogliamo, va messo assolutamente in sicurezza. È troppo facile dare la colpa al singolo. Le colpe sono di tanti in questa storia e ci aspettiamo che paghino. Invece sembra che non ne sentano il peso e non è giusto».

Torniamo al processo. Lei in aula ha visto in faccia Nathan Campbell. «Sì, l’ho guardato. Ma solo per un attimo. Volevo restare concentrato sulla mia testimonianza e sui fatti, le parole erano il mio unico potere per convincere la giuria».

Come è cambiata la sua vita da quel maledetto 3 agosto 2013?  «Da quel giorno la mia vita è diversa. È ferma ai ricordi, le giornate sono sempre uguali. Certo, il lavoro di architetto mi coinvolge con progetti nuovi, cerco di guardare avanti e farmi forza. Ma so che la vita che avevo con Alice non c’è più. Lei non c’è ed è un continuo tornare indietro con il pensiero. Il dolore che provo me lo porterò dentro per sempre».

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