La svolta che manca

Cattivi pensieri

Bologna, 3 luglio 2015 - Il gioco è semplice e sperabilmente stuzzicante. In più, si svolge nell’eco dell’attualità. Facciamo conto che non ci sia stata nessuna elezione per il rettorato dell’Alma Mater, o che le candidature siano andate deserte. E poi supponiamo che una casa produttrice di pergamene per i diplomi di laurea, una multinazionale, lanci un concorso tra quanti hanno voglia di immaginare quale sia l’università ideale della loro città, per noi Bologna. In premio ci sarebbe un tour in alcuni atenei d’Europa, Lovanio, la Sorbona, Salamanca, Oxford, così, anche per imparare la seria arte del confronto alla quale aderiamo solo quando si tratta di dire che, rispetto all’estero, qui è tutto uno schifo. Nel gioco non vi è nessun intento né di seguire le frasi fatte che in queste ore inondano i giornali né di fornire – chi saremmo per farlo? – ricette di successo. Ma l’idea che, anche per l’ateneo più antico d’Europa, il nostro, sia giunto il momento di entrare nella terza fase della sua missione è una carta fondamentale da mettere sul tavolo.

Che cosa vuol dire? Che dopo i momenti fondativi della ricerca e della didattica è il tempo della trasmissione del sapere universitario al territorio. Alle imprese, agli altri organismi culturali, all’economia, in maniera penetrante e sistematica, con l’avvertenza che il territorio ha oggi confini labili, fai un passo, scavalchi un fosso e sei nel mondo globale. Trasferimento di conoscenza, promozione della competitività, capacità di uscire dall’autoreferenzialità e dalla casta che piace ancora troppo al corpo accademico. 

È la svolta che ancora manca. O si passa pienamente per la terza terza fase, già ampiamente affermata negli stati Uniti, o la macchina universitaria è destinata a girare su se stessa, a vuoto. Perché la terza fase ha anche questo vantaggio, di inserire l’ateneo nel cuore di una funzione sociale inseparabile da quella formativa. Dunque, nuovo, assoluto protagonismo, presenza nelle strategie cittadine, e lotta contro il luogo comune della Bologna degli affittacamere (in nero), secondo cui l’università è un covo di studenti bighelloni o di insegnanti che rubano lo stipendio.

Ha scritto Umberto Eco: «Di qualsiasi cosa i mass media si stanno occupando oggi, l’università se n’è occupata venti anni fa e quello di cui si occupa oggi l’università sarà riportato dai mass media tra vent’anni. Frequentare bene l’università vuol dire avere vent’anni di vantaggio». Parole auree, incluso l’invito a frequentare bene. Io immagino un’Alma Mater che, assumendosi la responsabilità di nostro massimo centro di produzione culturale, sviluppi un ruolo comunitario, collettivo, autenticamente orientato al pubblico. Non vedo altra strada perché essa torni a essere una ‘universitas’ dove anche i primi studenti avevano un loro rettore. Il quale, oggi, è chiamato a pensare agli alloggi, alle aule e ai servizi agli alunni, al costo e qualità della vita per i fuorisede. Che tu venga da Bitonto o da Tortoreto Lido, non incontri altro punto d’accoglienza se non l’Alma Mater, i suoi corsi, la rete dei coetanei e dei docenti, la ricerca di una stanza, le lezioni, i pub, la convivenza, un’esistenza tutta cambiata.

Come si risponde a questo insieme di relazioni e di bisogni personali e generali? Come si riesce a comunicare che, in fondo, ci deve essere un posticino per il merito? E come si insegna che senza la filologia di Gianfranco Contini (1912-90) il famoso contemporaneo sarebbe un concetto rudimentale, inanimato, inutile? «Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore», ammoniva Steve Jobs. E’ troppo chiedere all’Alma Mater immaginaria, quella a cui abbiamo giocato, di prendersi cura anche di questo? Almeno un po’

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