Lui, lei, l’altra: caso Nigrisoli, il giallo al curaro

Cinquant’anni fa la condanna del medico per la morte della moglie Ombretta Galeffi

Il dottor Carlo Negrisoli

Il dottor Carlo Negrisoli

Bologna, 31 agosto 2015 - La siringa e la fiala di curaro erano sul comodino. Ma chi aveva confezionato l’iniezione? E davvero qualcuno aveva spinto nel corpo di Ombretta Galeffi lo spruzzo di quel veleno subdolo e micidiale che serra la gola, annienta i muscoli e spegne la vita in un soffio? E allora, cause naturali, suicidio o c’erano proprio la mente perfida e la mano ferma di Carlo Nigrisoli dietro la morte della moglie? «Sono innocente», disse lui. «Ergastolo», decisero i giudici, e il medico venne inghiottito da una cella.

Era il 1965, Bologna viveva il residuo di euforia per lo scudetto dell’anno prima, Rita Pavone cantava Come te non c’è nessuno, Fred Bongusto Amore fermati, il volto stanco di padre Marella riposava all’angolo di via Orefici, Dozza e Lercaro guidavano il Comune e la Curia, e lo sferragliare dell’ultimo tram, tra scarti e riprese, moriva negli applausi al capolinea di San Ruffillo. In quel clima prese tono il ‘caso Nigrisoli’, quasi una copia del delitto Murri, altro grande ‘giallo in medicina’ di inizio ’900.

Il giro di boa del mezzo secolo riporta adesso all’attualità la sentenza del ’65. Il suo protagonista, libero dal 1988, nuove nozze nel ’93, è svanito nella dissolvenza fino alla morte, l’11 ottobre 2006. Era un giovane medico, il 14 marzo 1963, quando la moglie Ombretta morì a 38 anni, uccisa da un’iniezione di sincurarina. Distinto e brillante, sbrigava con un pizzico di noia la routine nella clinica di vicolo Malgrado. Non che avesse impegni di particolare delicatezza, visto che si occupava per lo più di amministrazione, e del resto gli studi in medicina gli erano stati quasi imposti per allungare la ‘striscia in camice’ di una famiglia che già contava sul mitico Bartolo, sul professor Pietro e su altri. 

A 38 nni, invece, Carlo si sentiva portato per un’altra vita in una città dove si aggiravano le prime audaci minigonne, i jeans e i capelloni, che offriva facili bellezze e rapidi passatempi e che tirava le notti nelle atmosfere profumate dell’Esedra, del Mundo de Noche, del Guarany e della Fontanina, vellutati templi dello spogliarello e dei tappi in volo. Il medico, quindi, cercava fuori quello che non aveva in casa: rallies automobilistici, sfide di motonautica e soprattutto, perché no, l’alternativa a una moglie schiva e romantica, delusa soprattutto. Fatale, allora, l’incontro con Iris Azzali, la ‘Kim Novak di Casalecchio’, 21 anni, conquistata in clinica, tra un’avventura e l’altra, durante una vista medica.

Colpo di fulmine? Chissà. Di certo prese il via una tormentata relazione nella quale Nigrisoli annaspava sempre più coinvolto, tra pianti, suppliche e sfoghi di rabbia, fino ad ammettere disperato che senza Iris non avrebbe potuto vivere. E allora, lentamente, una donna risultò di troppo nella complicata esistenza del medico. Chi? La moglie. Ombretta Galeffi scivolò nel coma e da lì in una morte repentina la sera del 14 marzo. Malore? Un diabolico suicidio per incastrare il marito? Un’altra verità affidata a una perfida mano e a un ago carico di veleno? Un brutto giro di sospetti e quei torbidi retroscena: le minacce di Carlo, la parure sul comodino, il referto di uno psichiatra sul suo stato mentale, l’ambigua frase del professor Pietro davanti al corpo della nuora, «disgraziato, l’hai ammazzata».

Eppoi le richieste al fratello e al medico di guardia perché firmassero un certificato di morte per cause naturali. Entrambi rifiutarono, il ‘caso’ lasciò la clinica e invase le cronache e subito, nell’orizzonte del dottore, si addensarono i cupi nuvoloni delle manette. Il processo radunò una folla da stadio per lo più di donne equamente divisa tra innocentisti e colpevolisti, tesi contrapposte, si è suicidata, no l’ha uccisa, è colpa anche dell’altra, lui è di una famiglia potente uscirà presto. Ergastolo in primo grado, 24 anni, in appello, nel ’67.

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