Bologna, 17 marzo 2011 - Esattamente 150 fa, a Palazzo Carignano di Torino, allora capitale del neonato Stato unitario, il parlamento approvava una legge che, nel suo unico articolo, laconicamente recitava: “Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia”. L’atto di nascita dell’Italia unita aveva il suo battesimo in una formula, che nel suo linguaggio burocratico, non dava ragione della ricchezza e della complessità del processo storico da cui esso pur traeva origine. Pure quella complessità era scritta nella storia, recente e remota, della nazione italiana.

Sotto l’egida della monarchia sabauda e grazie alla intelligenza e lungimiranza politica del Cavour si realizzava quell’unità della nazione italiana che pure aveva avuto nel repubblicano Mazzini il suo apostolo ed in Garibaldi il conquistatore del Regno delle due Sicilie. Inoltre, al di là delle azioni politiche, militari e diplomatiche contingenti, quell’unità doveva considerarsi anche come il risultato e il frutto delle nuove aspirazioni e delle nuove esigenze di una nascente borghesia liberale, che si intrecciava e si incontrava con un più generale processo storico europeo nel quale, anche sotto la spinta degli ideali della rivoluzione francese e delle armate napoleoniche, si era risvegliata la voce dei popoli-nazione.

Il confronto con il coevo processo di unificazione della Germania, che si realizzava, quasi negli stessi anni, sotto la direzione, esclusiva, della Prussia di Bismark, ci consente di apprezzare quanto più ricco e vario sia stato, pur sotto la guida del Cavour, il processo risorgimentale dell’Italia, cui concorsero davvero, oltre che Mazzini e Garibaldi, patrioti di tutte le regioni e di tutti gli stati preunitari, che trovarono accoglienza e protezione nel Piemonte Costituzionale. E tutti, anche se da posizioni talora molto distanti, per metodi, per concezione della lotta politica, per le finalità da perseguire, lottarono per dare agli italiani una “patria comune” e si ritrovarono nel riconoscimento dell’alto valore simbolico del tricolore, vessillo e segno di questa superiore unità della nazione. Lo stesso Cattaneo, come ebbe a ricordare qualche anno fa il presidente Ciampi, definiva la Patria "un comune nascimento di pensieri" e concepì tutto il suo programma federalista come una forma più ricca di unità, superiore a quella degli Stati accentrati, nella convinzione che la vera unità è quella che conserva il pluralismo e trae forza da esso. E non a caso Cattaneo celebrava nei suoi scritti il momento in cui "liguri, subalpini e toscani" nel 1848 adottarono il Tricolore "a segno di unità".

L’istanza repubblicana di Mazzini, e quella federalista dello scienziato e politico Cattaneo, anche se lasciate da parte, per le stringenti necessità della storia, nel 1861, costituiranno, nel prosieguo della storia dell’Italia unita, costanti punti di riferimento ideale per le successive generazione, fino a trovare una prima compiuta e solenne affermazione nella Carta costituzionale del 1948, che ha legato, in un articolo fondamentale - il quinto - l'unità e l'indissolubilità della Repubblica alla promozione e valorizzazione delle autonomie regionali e locali”.


Ma i patrioti italiani, nel momento in cui proclamavano, il 17 marzo del 1861, l’unità d’Italia, avevano l’orgoglio e la consapevolezza di aver finalmente realizzato quel sogno che era stato coltivato ed alimentato, nei secoli, dai nostri più grandi intellettuali e letterati, da Dante e Petrarca, da Alfieri a Manzoni a Leopardi, e che già si configurava, in Machiavelli, che aveva compreso che soltanto un’Italia unita avrebbe potuto competere con gli altri grandi stati-nazione d’Europa, come un preciso disegno politico. Questo diffuso sentimento di appartenenza ad una storia e ad una cultura comune fa sì che nel caso dell’Italia si possa veramente dire che la realizzazione dello stato unitario si fondi sulla preesistenza della nazione e non ne costituisca la premessa. Prima Nazione quindi e poi Stato, e Stato perché già Nazione.