Bologna 1 maggio 2011 - La stanza con le coppe. Oltre la finestra il muro, nell’aria gli spari. Uno dopo l’altro a intervalli regolari. Nel poligono di tiro di Imola accoccolato sul Santerno, sulla riva opposta a quella dove si spalma l’autodromo, la stanza di solito è chiusa. Una sedia sull’altra, il gigantesco pennone con la bandiera tricolore mezza arrotolata. Sarà due metri, giù di lì. Ma ieri è aperta. E gli spari continuano: «Per anni ho avuto il rigetto dei colpi d’arma da fuoco. Ora no. Ma ogni volta che sentivo il rumore mi veniva in mente quello che aveva provato mia moglie», dice Luciano Verlicchi. Insegnante in pensione, ha 67 anni. Dal 1996 non parla sui giornali. Silenzio e dolore. Emozioni private per un fatto tremendamente pubblico. Il 2 maggio 1991 perse la moglie Licia Ansaloni nella macelleria di via Volturno, opera della banda della Uno Bianca. «Licia viveva per le figlie, avrà pensato a loro quando ha visto la canna puntata su di lei. Questa cosa mi turba ancora», aggiunge. Verlicchi aveva fatto parte della Nazionale di tiro.

Poi ha ricominciato a sparare. Come mai?
«Dopo quell’episodio, per quattro anni non sono più riuscito a sentire il rumore dei colpi. Ma quando hanno arrestato i Savi, nel ’94, mi si è aperto un mondo davanti. E’ tornata la voglia di ricominciare».

Dopo tanto accetta di riaprire la ferita dell’armeria. Cos’è cambiato dopo vent’anni?
«Voglio chiarire alcuni punti, per me fondamentali. Ma il dolore resta, sempre. Sui Savi però una cosa tengo a dirla: gli altri familiari dicono che non perdoneranno mai. Io invece, dopo vent’anni, sono anche disposto a perdonare. L’importante è che scontino le loro pene in carcere. C’è altro però».

Cosa?
«Un magistrato coraggioso dovrebbe riaprire le indagini».

Perché?
«Ci sono troppi punti oscuri. E troppi conti che non tornano».

Iniziamo.
«Intanto i killer. Nell’armeria c’era Roberto Savi, certo. Fabio no. L’identikit dell’uomo con i baffi e con la pronuncia senza inflessioni rimanda a una persona che non è ancora stata presa. Forse c’erano anche altre persone fuori dall’armeria. Poi l’arma. A sparare è stata una pistola Feg ungherese, le cartucce erano 9x19. Il dottor Paci di Rimini una volta disse: ‘Dovete farvi sentire, sono stati reperiti 68 bossoli 9x19’».

Ma le perizie balistiche...
«A volte sono state ridicole. Il tre maggio andai in armeria, vidi i segni dei proiettili. La palla che aveva trapassato il cranio di mia moglie era di quel tipo. Si notava dal ‘trattamento’».

Sull’armeria è stato detto e scritto molto. E’ vero che il segreto dell’inchiesta è lì dentro?
«Non c’è mai stato traffico di registri. Non c’è mai stato traffico di proiettili. Inoltre non abbiamo mai fatto correzioni col bianchetto. Col bianchetto non si coprono le righe: se l’avessimo fatto, avremmo commesso un reato».

Il processo però ha sancito che le correzioni furono fatte molto tempo prima del delitto.
«Il bianchetto è stato messo durante il sequestro. Forse c’era qualcuno che aveva paura di essere coinvolto in situazioni strane. Ci sono state dichiarazioni infondate sull’armeria».

Lei per primo capì che l’identikit del killer corrispondeva a Roberto Savi. Nel processo però è stato meno diretto. Perché?
«Quell’interrogatorio non è stato semplice. Mi spiego. Io vidi gli identikit su carta stampata alle 16, 16.30 del 2 maggio 1991. Incrociai un testimone in un corridoio della Questura. Poi entrai e parlai col vicedirigente della Mobile Buono, che voglio ringraziare per come si è comportato con me».

Cosa accadde?
«Ci furono trenta minuti di tira e molla. Mi fece vedere l’identikit. Inizialmente non mi venne in mente nulla. Mi incalzarono. parlammo. Poi, dopo un bel po’, dissi: ‘Assomiglia a uno dei suoi. Non so chi sia, ma ha comprato un Revolver 44 Magnum da noi nel 1984’. Dissi l’anno sbagliato.- Ma c’erano 9 volumi di registri, e di quei revolver ne avevano venduti pochissimi. Bastava controllare per risalire a Roberto Savi».

Quindi riconobbe sì o no Roberto Savi?
«La risposta è sì e no. Non sapevo che si chiamasse Savi, ma sapevo che una persona della Questura, che somigliava all’identikit, era stata da noi. Non ho mai ritrattato, ma alla risposta non si poteva rispondere sì o no».

Lei chiede di riaprire le indagini. Per riaprire le indagini, però, servono elementi nuovi. L’inchiesta è stata molto dettagliata. Fu anche scandagliato un poligono ‘oscuro’ a San Lazzaro, in una proprietà dell’ex titolare dell’armeria. Quali sono i nuovi elementi?
«Elementi nuovi non ci sono. Ma ci sono situazioni e cose che sono state per nulla chiarite e poco affrontate. Bisognerebbe riprendere l’interrogatorio del febbraio 1995 di Roberto Savi. Lì, secondo me, ci sono piste che potevano cambiare il corso dell’inchiesta e che forse non sono state battute».

Si riferisce al cosiddetto ‘terzo livello’, l’organizzazione destabilizzante e paraterroristica che sarebbe stata sopra i Savi?
«Il ‘terzo livello’? E’ matematico. Io ripenserei alle dichiarazioni di Thomas Somogy, il trafficante d’armi ungherese inquisito sia a Rimini sia a Bologna. Quello che dice va verificato. Ma le frasi sui servizi, su nomi molto in alto, sullo scambio di armi che avveniva per dazioni da 20 milioni di lire, ad esempio, al cimitero dei polacchi di San Lazzaro, hanno un senso. Mia moglie è stata uccisa solo perché si trovava nell’armeria, ma la vittima designata era Pietro Capolungo. Nuove indagini? Io lo auspico, ma sarà improbabile».

Vent’anni dopo, cosa resta di quel giorno in armeria?
«Una sensazione sgradevole, un vago ricordo. Ci sono state anche altre situazioni. Un giorno ero a San Luca, giravo armato. Erano momenti terribili, mi sembrava di essere seguito. Infatti mi accorsi, arrivato su, che c’erano due auto con quattro persone che mi aspettavano. In atteggiamenti strani. Ero pronto a un conflitto a fuoco. Praticando il tiro a segno, sapevo che avrei potuto colpirli. È stato tremendo».