Bologna, 22 giugno 2011 - LA PROCURA si arrende «di fronte al muro di omertà opposto agli investigatori» e chiede l’archiviazione per gli 8 ultrà del Bologna accusati di associazione a delinquere dopo l’aggressione al tifoso juventino avvenuta fuori dal Dall’Ara il 29 ottobre 2008. Il pm Alessandra Serra, titolare dell’inchiesta, ha depositato nei giorni scorsi la richiesta di 12 pagine in cui chiede al gip di archiviare tutte le accuse, tranne quella di lesioni gravissime (in principio era tentato omicidio) a carico di un solo tifoso rossoblù, S. P., 40 anni, che materialmente avrebbe colpito alla testa con una pietra il supporter della Juve.

Quella notte, dopo il match, avvenne «un’aggressione di violenza inaudita». Massimo De Vita, brindisino che oggi ha 42 anni, allora residente a Modena, era stato a vedere la partita con il figlio di 16 anni e un amico del ragazzino. Mentre tornava alla macchina, in via della Certosa, fu brutalmente aggredito dagli ultrà che volevano rubare la sciarpa del 16enne. Il padre reagì e fu colpito alla testa con una pietra. Il trauma fu tale che l’uomo non si è più ripreso. Ancora oggi ha difficoltà a muoversi e a parlare ed è rimasto invalido.

L'episodio destò profonda impressione in città. Soprattutto per quel che emerse in seguito e cioè l’atteggiamento di indifferenza o, peggio ancora, giustificazione della maggior parte dei tifosi, anche non ultrà, che videro la scena. Lo scrive il pm, sulla base del racconto delle uniche due persone che tentarono di confortare il ragazzino che urlava con il padre a terra in una pozza si sangue. «Diverse persone — si legge nella richiesta d’archiviazione — risposero: ‘Stai zitto sennò ti infiliamo la sciarpa nel c...’. Un altro disse (riferendosi alle origini meridionali del 16enne; ndr): ‘Quando parli con me devi parlare in italiano’. Un terzo affermò, con tono pacato: ‘L’aggressione è da condannare, però tu la sciarpa dovevi togliertela’».

Il pm è lapidario: «La Digos ha percorso ogni strada di possibile investigazioneper accertare gli autori del gravissimo fatto, nel silenzio delle società calcistiche (che hanno abbandonato la famiglia De Vita), della società civile (nessun teste si è fatto avanti in una condizione in cui moltissimi hanno assistito ai fatti), della parte sana della tifoseria (pure gravemente assente)».

La Procura aveva ipotizzato l’esistenza di «un’associazione a delinquere finalizzata a insultare, minacciare, strattonare e costringere i tifosi avversari a subire atti violenti». Poi, grazie all’identificazione fatta dalle vittime in base ai filmati, aveva indagato gli 8 ultrà (fra i legali, Gabriele Bordoni e Matteo Murgo), ex Mods ora appartenenti al gruppo ‘Bologna 1982’. Li ha anche interrogati, ma quasi tutti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Alla fine ha gettato la spugna, «ritenendo di non avere sufficienti elementi per sostenere l’accusa in giudizio e nell’impossibilità di effettuare approfondimenti stante il muro di omertà opposto agli investigatori». Finale scoraggiante: «I risultati investigativi non sono sufficienti a dimostrare in sede penale ciò che avviene invece ogni domenica con l’organizzazione sistematicamente violenta di alcune frange delle tifoserie».

La moglie di De Vita, Elvira non nasconde l’amarezza: «Siamo rovinati. Mio marito è rimasto invalido al 60%, ma non gli danno la pensione. Faceva il lattoniere, ora non può più lavorare. Siamo entrambi disoccupati. Ci siamo dovuti trasferire da Modena per tornare a Brindisi, con gravi sofferenze e disagi per i nostri due figli. Ora questa notizia dell’inchiesta finita così. Siamo delusi. Che giustizia è mai questa?». Quanto all’omertà, Elvira De Vita sospira: «Un atteggiamento che non fa onore a Bologna».