Bologna, 11 dicembre 2011 - Seimila e 300 campi da calcio come il Dall’Ara. O, se preferite, 6.500 volte Piazza Maggiore. Questa cifra mostruosa è la superficie che è stata edificata a Bologna e provincia negli ultimi dieci anni. Tradotto in aree è uno spazio di 45chilometri quadrati. Metà sono stati mangiati al territorio urbano, i restanti alla campagna. Una grande abbuffata di cemento che è sotto gli occhi di tutti ma che nessuno si riesce a spiegare: chi ha dato i permessi di costruire e perché, visto il calo demografico e la sostanziale non necessità di nuovi alloggi. I dati di Nomisma del 23 novembre parlano di 10mila unità abitative invendute nel bolognese. Eppure gli strumenti di pianificazione esistono: Psc, Rue e Poc sono le misteriose sigle che hanno sostituito i vecchi piani regolatori.

La risposta sta forse in un articolo previsto dalla buona legge regionale n.20 del 2000: quello relativo alla possibilità degli ‘Accordi di programma’, come variante del piano comunale. E, nonostante le buone intenzioni sulla carta, ad ogni Comune è data la facoltà di stringere accordi di programma che permettono di rendere edificabili aree in cambio di opere pubbliche, come rotonde o piste ciclabili, ma soprattutto riscuotendo appetitosi oneri di urbanizzazione. In pratica: facendo costruire su un’area resa edificabile i sindaci dei Comuni (non esclusa, evidentemente Bologna) mettono nella casse denaro sonante, una vera manna in tempi di vacche magre. Il gioco è fatto: la corsa di tutti i Comuni a stringere accordi con costruttori per incamerare denari in cambio di suolo.
 

Una abbuffata del mattone durata dieci anni e non ancora finita, anche se metà delle case restano invendute. «Le norme regionali in realtà sono chiare — spiega Alessandra Furlani, agronoma e direttore della rivista Territori — e le scelte di pianificazione dovrebbero tener conto delle esigenze reali di nuova edificazione sulla base dei flussi demografici e dell’andamento dell’economia reale. In questo ultimo decennio il boom immobiliare, invece, ha seguito logiche finanziarie, di investimento puro, spesso scollegate dalla reale esigenza di costruito. La crescita dei valori immobiliari, contrariamente ai cicli storici di mercato, ha avuto una durata straordinaria e questo ha indotto molti soggetti spesso improvvisati ed estranei al settore, a tuffarsi nell’affare, spinti prevalentemente dalla leva finanziaria e non da reali necessità territoriali».
 

Compresi i sindaci che hanno rimpinguato le casse: non per arricchire la comunità, ma per coprire le spese di un sistema di servizi sempre più ricco per i propri cittadini. Ma ‘vendere’ campagne e territorio è un po’ come mangiarsi il patrimonio: si è proceduto con una logica di brevissimo periodo. Se prima del 2000, gli oneri di urbanizzazione costituivano entrate straordinarie, oggi servono per le spese correnti, come pagare gli stipendi ai dipendenti. E’ un sistema drogato, come un gatto che si morde la coda: perché edificare, se da un lato fa incassare soldi ai Comuni, dall’altro richiede spese aggiuntive per nuovi servizi. Se le case non si vendono, chi ci rimette? Le banche, con mutui inevasi o fallimenti, i sindaci, cui non tutti gli oneri sono stati pagati, i cittadini che si sono visti svalutare i loro immobili almeno del 25%, data la saturazione del mercato e, soprattutto, il territorio, quindi il futuro.
 

Dal 1990 abbiamo mangiato tanto territorio quanto i nostri predecessori hanno fatto in tremila anni. I rischi sono incalcolabili. «Il cemento e l’asfalto rappresentano destini irreversibili dei terreni che compromettono in forma definitiva le funzioni del suolo agricolo — prosegue Furlani — basti pensare alla funzione di percolamento e di scolo: un conto è se piove sul terreno, un conto se l’acquazzone trova ad accoglierlo strade, piazzali, capannoni». Ma l’abbuffata continua. Stanno spuntando nuovi progetti, sotto nomenclature tinte di ecologismo si promuove nuova edilizia. Ci sono piatti grossi in città (che progetti per la Manifattura o il Dopolavoro ferroviario?) ma anche in provincia dove gran parte della campagna è finita già in pasto al mattone (vedi, le edificazioni a tappeto di San Lazzaro, Castel Maggiore, Funo, Zola Predosa, Calderino). «Il dato inquietante — conclude Furlani — è che non esiste governo del territorio nemmeno in questa regione che un tempo ha fatto scuola di urbanistica». Troppe brutture sono spuntate a Bologna e nel suo hinterland. Nei vecchi quartieri operai del Novecento (Bolognina e Cirenaica) che hanno perso ogni identità, o lungo l’asse Stalingrado, alle Due Madonne, in San Donato. Su ogni nuovo palazzo dovrebbe essere indicato il nome dell’amministratore che lo ha permesso e dell’architetto che lo ha progettato.