Bologna, 3 aprile 2012 - CON UN DESTINO nel nome, Bruno Conti, l’imprenditore a capo del gruppo Sefa Acciai, poteva rassegnarsi all’omonimia oppure, come è successo, amare il basket. Andare controcorrente, per lui, era una necessità che gli è tornata molto utile sul lavoro. Romagnolo di San Leo, negli anni Sessanta, appena uscito dalle Aldini Valeriani, durò fatica a convincere il papà che non avrebbe partecipato al concorso per entrare in Ferrovia. A lui interessava l’acciaio. Venderlo, per la precisione. E lo fece per un decennio. Fino a quando la Uddeholm gli offrì l’opportunità di mettersi in proprio, aprendo un magazzino per la società svedese.

Da lì in poi, cioè dall’inizio degli anni Ottanta, comincia la crescita della Sefa Acciai, oggi un gruppo che comprende tre aziende, tutte controllate dalla famiglia Conti. Che delocalizza poco, per la semplice ragione che il suo titolare è un difensore dei prodotti e del saper fare italiani.
«Oggi l’industria deve inventarsi continuamente cose nuove, ma tenendo e valorizzando i cervelli italiani».
Conti, molti imprenditori preferiscono produrre dove si spende meno.
«All’inizio può sembrare un vantaggio ma poi si finisce col perdere tutto. Per esempio, quando l’Alcoa se ne andrà dalla Sardegna, in Italia perderemo la cultura capace di produrre l’alluminio. Comprarla all’estero e commercializzarla non è la stessa cosa».
Eppure molti pensano che sia una strada obbligata.
«Può darsi. Però noi abbiamo bisogno di produrre ricchezza per poterla redistribuire. E chi la produce? I servizi? Senza industria manifatturiera non c’è ricchezza e noi la stiamo perdendo».
Forse è una tendenza inarrestabile.
«In ogni caso, dobbiamo avere il tempo di inventarci cose nuove. Non possiamo rinunciare ai cervelli con la scusa che costano troppo. Sono la nostra assicurazione sul futuro».
Altrimenti che succede?
«Che dipendiamo dagli altri. Non è necessariamente un bene. In questo momento nel settore manifatturiero, a Bologna, il sessanta per cento del lavoro viene dai tedeschi. Che costringono le aziende italiane ad accontentarsi di remunerazioni scarse, comprimendo i costi. Politica che va benissimo per loro. Per noi, meno».
La crisi non sarà solo colpa degli altri.
«Affatto. Ci abbiamo messo molto del nostro. Negli ultimi quindici anni, per esempio, nelle famiglie si è affermata l’idea che i lavori manuali sono sconvenienti».
Immagino che per un ex alunno delle Aldini Valeriani sia una bestemmia.
«Vero. Siamo diventati grandi grazie alla nostra cultura tecnica e faremmo meglio a tenercela».
Come?
«Trattenendo i cervelli, anche a costo di qualche sacrificio. Nel 2009, noi subimmo una crisi durissima. Ma non licenziammo nessuno perché volevamo mantenere in azienda la competenza che ci serve. E’ una risorsa strategica».
Una scommessa vinta?
«Direi di sì. Passato il periodo peggiore siamo tornati a crescere. Pensi che dal 2002 a oggi solo n0el settore stampi, tra Emilia, Umbria e Marche si sono persi tremila posti di lavoro e quindici milioni di euro di fatturato».
Si poteva evitare?
«Non lo so. L’Italia è un paese difficile per fare gli imprenditori. Però molti sbagli li abbiamo fatti noi».
Me ne racconta uno?
«Aspettare i clienti è il nostro grande difetto nazionale. E’ un freno all’internazionalizzazione delle imprese, allo sviluppo e alla crescita».
Come si rimedia?
«Associandosi con i propri simili, in modo da ottenere ordini che da soli non potremmo soddisfare. Noi produciamo anche pezzi in titanio per l’industria avionica, e dobbiamo essere in grado di rispondere a un’eventuale richiesta della Boeing».
Ce la fate?
«Sì. Anche perché il tempo del piccolo è bello è finito da un pezzo. Bisogna unire le forze. Ormai non basta più produrre un pezzo. Bisogna sperlo fare in tempi brevi, altrimenti il mercato va da un’altra parte. E non vogliamo che succeda».

di MARCO GIRELLA