Bologna, 15 aprile 2012 - SE NON FOSSE per la curiosa materia didattica, sarebbe tutto nella norma: un’aula (un teatro, in realtà), un insegnante e gli studenti che da dieci anni seguono i corsi. Solo che Roberto Serra, bancario persicetano di 36 anni, è un professore di dialetto bolognese del corso Al Cåurs ed Bulgnais. Dopo gli studi classici e la laurea in Giurisprudenza, Serra segue il sentiero del dialetto capendo che «se nessuno si fosse messo ad ascoltarlo in modo attivo e studiarlo per bene sarebbe morto», spiega. Così ha cominciato a leggere i documenti dei ‘guru’ Menarini e Lepri, incontrando poi un altro devoto al dialetto, Daniele Vitali, a fare ricerche sul territorio con interviste fonetiche. Fino a scrivere, tra le altre opere, Al Pränzip Fangén, la traduzione bolognese de Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry.
Come nasce nel 2002 il corso?
«L’idea mi è venuta perché molti giovani lo chiedevano, erano interessati a conoscere un patrimonio che sta scomparendo. Adesso ogni anno ho circa cento studenti, gente da tutta Italia e diversi stranieri. L’età media è sui 30 anni».
Stranieri?!
«Sì, l’anno scorso avevo un ragazzo del Butan, che ha frequentato tutti e tre i livelli per due volte. Ci teneva ad approfondire il legame con la città. La cosa incredibile è che lui scriveva in dialetto bolognese usando l’alfabeto del suo Paese».
Il dialetto lentamente sta sparendo. Presto morirà?
«Non lo so, ma adesso gli stiamo facendo la respirazione ‘bocca a bocca’. Anche se i giovani che lo padroneggiano quasi non esistono, negli ultimi tempi c’è stato un risveglio: non noto più il pregiudizio di valutarlo come una connotazione tipica di gente di serie B».
Il teatro dialettale funziona...
«Sì, grazie ai tanti volontari che danno l’anima. Oltre alla quantità servirebbe un rinnovamento che andasse oltre la solita commedia degli equivoci. Sarebbe bello cercare di produrre con un dialetto colto e innovativo, trovando trame moderne con contenuti profondi».
Nelle altre regioni d’Italia la situazione com’è?
«Stiamo vivendo un regresso generale, ma Bologna è la più sfortunata. Al Sud sono molto conservativi, in Veneto il dialetto viene sentito e usato tantissimo, in Lombardia, Liguria e Piemonte c’è un interesse legislativo maggiore verso l’insegnamento. Noi siamo ultimi nell’uso e nella tutela».
Al Museo della Storia di Bologna è stata dedicata una sala al dialetto.
«E questo è un bel segnale di attenzione, ma da un’istituzione privata come la Fondazione Carisbo, non dal pubblico».
Il dialetto napoletano è stato dichiarato ‘patrimonio Unesco da proteggere’.
«Anche l’emiliano. È sicuramente un buon riconoscimento».
È stato fatto un censimento di chi parla in dialetto?
«Ora le poche energie che ci sono vanno usate per salvarlo e farlo conoscere alla gente, piuttosto che contarci».
Se scomparirà, cosa perderemo? «È come se a Bologna crollassero le Due torri: scomparirebbero l’identità e l’anima di una popolazione, la sua storia».

di Alessandro Belardetti