Bologna, 24 aprile 2012 - Il calciolo è quella parte del manico del fucile che si appoggia tra petto e spalla. Serve ad assorbire il rinculo del colpo. Una volta, per uomini fatti di un’altra tempra e, soprattutto, meno assistiti dalla tecnologia, il calciolo era di legno come il resto del manico. Poi è diventato di gomma, per favorire l’assorbimento delle vibrazioni. Adesso, per realizzarlo, si usa anche il poliuretano espanso. Anzi, lo fanno di questo materiale alla Cervellati, che sul pezzo più misconosciuto dei fucili ha costruito la sua fortuna. Il titolare, Stefano Cervellati, è figlio e nipote d’arte. Rappresenta un raro esempio di imprenditore che guida un’azienda piccola, capace di resistere alla tempesta economica grazie a un basso indebitamento e alla capacità di investire, contando su mezzi propri.
«Mio nonno fondò l’azienda nel 1937. Negli anni Cinquanta si specializzò nello stampaggio della gomma, perché sia lui che mio padre erano appassionati di caccia e maneggiavano diversi fucili».
 

Si posero il problema di come assorbire la botta?
«Il calciolo per ammortizzare c’era già. Loro pensarono di produrlo per chi fabbricava i fucili. Ancora oggi il 90 per cento dei calcioli della Beretta escono dalla nostra fabbrica».
Era una lavorazione sufficiente a far prosperare l’azienda?
«Un grosso impulso lo diede successivamente mio padre, negli anni Sessanta. Portò lo stabilimento a San Lazzaro e cominciò a stampare articoli tecnici in gomma per Marposs, Gd, Sacmi. Per ogni azienda un pezzo diverso e uno stampo diverso. Infatti oggi ne abbiamo catalogati circa quindicimila».
Fu quella la svolta decisiva?
«Ce ne fu un’altra a fine anni Settanta. Ottenemmo dalla Bayer la licenza per lavorare il Vulkollan».
Cos’é?
«Un poliuretano speciale, molto utile per realizzare ruote piene, senza camera d’aria, in grado di sopportare grandi carichi. Nel secondo dei nostri stabilimenti ne coliamo circa duecento tonnellate all’anno».
Per chi?
«Un quarto della nostra produzione va all’estero, una metà a clienti italiani che lavorano con l’estero».
Lei entrò in azienda insieme al Vulkollan?
«Qualche tempo dopo. All’inizio degli anni Ottanta. Poco convinto, all’inizio».
Vocazione difficile?
«Mio padre era un uomo che lasciava spazio. Lavorando nel settore commerciale, diventai prima curioso e poi appassionato».
Che insegnamenti le trasmise?
«Mi fece capire che una ditta è come uno sgabello a tre gambe: area commerciale, produzione, finanza. Se una delle tre non funziona, la sedia cade».
Le è servito?
«Sì, ho sempre cercato di affidare a persone competenti i settori in cui non ero un esperto».
Come ha attraversato la grande crisi?
«All’inizio con qualche difficoltà. Ma le ho superate presto. L’azienda è capitalizzata e ha pochi debiti, perché gli utili li reinvesto qui dentro. L’anno scorso abbiamo rifatto il capannone senza chiedere prestiti».
Per una piccola azienda, una grande lungimiranza.
«Investiamo anche in ricerca».
Complimenti, ma deve perdonarmi lo scetticismo.
«E’ che puntiamo a realizzare prodotti che siano solo nostri. Cinque anni fa abbiamo brevettato un calciolo di poliuretano. Pesa meno e assorbe meglio».
E’ stato accolto bene?
«Abbiamo investito in un impianto apposito e i primi due anni andava male. Adesso invece vendiamo anche ai produttori di fucili giapponesi».
In fondo, non vi siete allontanati dalle origini.
«Adesso stiamo studiando un guscio protettivo per codici Rfid».
Cioè?
«Codici che si utilizzano per identificare prodotti. Siamo sul punto di entrare sul mercato, quindi sono reticente in proposito. Stiamo facendo test, ma penso che all’estero sarà accolto bene».
Anche lei pensa alla fuga dall’Italia?
«No, e in ogni caso, se dovessi andarmene, sceglierei la Germania, non certo la Cina o la Romania».

di MARCO GIRELLA