Bologna, 7 febbraio 2013 - Una corsa contro il tempo per salvare un gruppo che comprende 250 dipendenti e 31 filiali in Italia. La Rizzoli ortopedia, le storiche Officine ortopediche Rizzoli, è un’azienda storica di Bologna, nata nel 1896, che dagli anni ‘90, ha la direzione generale in via Cesare Battisti, a Budrio.

Qui sono 30 i dipendenti che sperano in un salvataggio dell’azienda. Se il commissario Marco Zanzi, nominato dal tribunale, non troverà un acquirente entro marzo, si rischia di chiudere i battenti. E’ stata la stessa proprietà, ‘Seconda investimenti’ di Bologna, a chiedere il concordato preventito per cercare di salvare il gruppo e tentare di saldare i debiti con i creditori.


Da tempo le Officine ortopediche Rizzoli hanno problemi, anche se sono sempre state considerate fra le prime aziende del settore in Italia. A dare il colpo di grazia, secondo la proprietà, sarebbero stati i 17 milioni di euro di prodotti non pagati da aziende sanitarie pubbliche (fuori dall’Emilia-Romagna ): «Abbiamo delle fatture certificate del 2006 — spiega un investitore — dove l’ente di turno ammette di avere un debito ma anche che non lo salderà perché senza soldi».

L’azienda aveva da poco «brevettato un ginoccio elettronico (18 mila euro al pezzo) in grado di muoversi automaticamente a seconda se l’amputato corre, cammina, oppure va sulle scale. Dalla Turchia ce ne avevamo ordinati un centinaio, ma non abbiamo potuto inviarli perchè la situazione debitoria era diventata insostenibile».


LA RIZZOLI stava per diventare primo fornitore degli Emirati Arabi: «Avevamo già dei contatti importanti – continua l’investitore – ma tutto è naufragato sempre a causa degli enti locali italiani che non ci hanno pagato. Gli Emirati Arabi avrebbero addirittura saldato in contanti. Se anche i nostri enti sanitari locali avessero pagato almeno entro 60 giorni, non saremmo mai arrivati a questo punto». Fra le tecnologie della Rizzoli c’era un robot unico in Italia: «Un amputato — aggiunge l’investitore – poteva andare in una delle nostre filiali sparse in Italia e uno scanner mandava i dati alla direzione generale dove c’era questo robot che realizzava il prodotto e in quattro giorni arrivava a casa del cliente».


LE IDEE rivoluzionarie non sono bastate a salvare il posto di lavoro dei 30 dipendenti di Budrio che, attualmene, sono in cassa integrazione per crisi. «Da novembre — spiegano i lavoratori — non riceviamo lo stipendio. Non abbiamo più la mensa, i bagni non vengono puliti da tanto tempo. Abbiamo capito che qualcosa non andava perché calavano gli ordini, ma che la situazione fosse a questo punto nessuno ce l’ha mai detto. Speriamo che il concordato permetta di trovare una acquirente».

Matteo Radogna