Bologna, 20 dicembre 2013 - Il nuovo logo di Bologna, a chi piace e a chi no. Ecco due pareri a confronto.

 

No. Esclude chi non 'clicca' (di Cesare Sughi)

MA BOLOGNA sta tutta dentro a un clic? E basta cliccare — pardon, essere interattivi; e chi non lo è, peggio per lui — perché dal logo che ha vinto il concorso bandito dal Comune spunti l’immagine della città da comunicare all’Europa e al mondo intero? Confesso lo smarrimento e la delusione. Questo è un posto di creativi, di spiriti innovativi, e spero di non offendere nessuno (e meno che mai gli autori e i giudici) se dico che mi aspettavo di più. Anzi, che così ci sono molte cose che non mi quadrano. Abbiamo dunque un marchio. Che vorrebbe dire un segno grafico in cui identificare e con cui diffondere il nostro prodotto, cioè noi stessi, la nostra cultura, le nostre eccellenze. I marchi famosi durano. E’ il loro primo requisito, dal Cavallino Rampante della Ferrari alla Disney. L’oggetto destinato a rappresentare Bologna nel mondo parla invece l’esclusivo linguaggio di un presente che più effimero non si può, schiacciato com’è sul flusso continuo delle onde informatiche e internettistiche. L’idea sta nel clic, e nelle molte facce di Bologna che da quel gesto scaturiscono. Fine del videogame. Penso al marchio della Apple, il primo nella classifica mondiale. Volete dire che l’azienda non era in grado di strologare qualche diavoleria digitale?

Ebbene, ecco una mela (apple=mela) con un morso. Tutto qui. Una marea di significati. Il peccato di Adamo ed Eva. La possibilità di mangiare la mela intera. La voglia di capire se ci piace o no. Quella, al contrario, di sputare il boccone perché non ci piace. Semplice semplice. Chiaro. Non ridondante, perché nella comunicazione pubblica l’affastellamento di termini e di affermazioni non produce altro che rumore.
Diceva Bruno Munari, maestro assoluto della grafica: «Il sogno dell’artista è comunque quello di arrivare al Museo, mentre il sogno del designer è quello di arrivare ai mercati rionali». Spero che qualcuno non accuserà l’autore di ‘Artista e designer’ di populismo o qualunquismo snob. L’obiettivo, per chi disegna una sedia, una macchina per scrivere o un marchio di fabbrica è sempre uno, sintetizzare il massimo di efficacia e di accessibilità con il massimo di ricerca artistica. Un marchio parla se ha un linguaggio, non se risulta attuale, e per questo, si suppone, incuriosente. A Bologna slogan come ‘contemporaneo’ o ‘contemporaneità’ sono comandamenti quotidiani. Anche troppo. Ma questi concetti non hanno nulla di cronologico, non coincidono con il calendario. Shakespeare e Dante, non sarebbero nostri contemporanei?
Il discorso va lontano. Non importa il ‘mi piace’ ‘non mi piace’ che impazza su Facebook. Importa, lo affermo rispettosissimamente, aver perso un’occasione. Non poter disporre di una sintesi chiara e distinta di ciò che Bologna crede di sè e della sua proiezione futura. Il marchio distingue. L’interattività unifica. Certo che, come ho letto da fonte autorevolissima, ogni marchio va riempito di contenuti, e se la carne di una scatoletta è cattiva, nessun pubblicitario potrà renderla morbida e gustosa.O forse, con questo logo riflette proprio la fine della Storia. Ognuno può scegliersi, cliccando, la Bologna che vuole, come fosse Kuala Lumpur o Pavia. Se è così, rassegnamoci. I marchi di qualità saranno presto tutti uguali. Come i clic.

 

Sì. Parla la lingua del nostro tempo (di Flaviano Celaschi*)

MARCHIAMO una città perché decidiamo di leggere un territorio come una merce; una merce in parte tangibile e in parte intangibile che deve competere rispetto ad altre merci concorrenti e quindi farsi notare, farsi chiamare, farsi ricordare, “farsi scegliere”, come luogo dove abitare, dove localizzare un impresa, dove studiare, dove andare a fare turismo. Il territorio diventa così un bene che è meglio che possieda un’identità attraente e contemporanea, pensiamo al sole nel marchio della Spagna, al famosissimo “I love NYC” ed alla mela come marca della più famosa città degli USA. Per essere attraente una marca deve essere breve e chiaramente leggibile, unica, evocare segni e simboli del bene che rappresenta. Per essere contemporanea deve essere capace di parlare la lingua del nostro tempo e far parlare di sé.

Per tutti questi motivi lo sforzo dell’amministrazione di Bologna di darsi una marca è un bell’esempio. Prima di tutto perché si è affidata a esperti riconosciuti a livello internazionale per costruire un processo di ricerca: se il tema è chiaro è più facile ottenere un risultato efficace; poi perché chi ha scelto tra un incredibile quantità di proposte ha scelto di premiare un processo anziché un segno. La soluzione premiata testimonia il nostro tempo perché permette a un elevato numero di persone di contribuire a disegnare la marca di Bologna. La marca scelta è il nome occidentale moderno che le diamo, ma accanto ad essa ognuno di noi può scrivere una parola che intende associare alla città e la marca, come cosa viva ed interagente. La marca disegna su di essa un segno distintivo grafico che si compone sotto i nostri occhi. Otteniamo così una marca unica per ogni aggettivo o parola che formiamo e, soprattutto, questo piccolo giochino digitale abilita ognuno di noi a sentirsi creativo.
Quindi la marca scelta non è solo la marca di Bologna, ma diventa la marca di una relazione: la relazione tra la persona che con essa gioca e la città stessa, giocando con la marca dimostro di voler intrecciare con Bologna questa relazione, di esserci e di contare, di sentirmi parte, dimostra che una città, un territorio, è una merce particolare, una merce che io contribuisco ogni giorno a costruire e difendere, celebrare e comunicare. Questa marca ci ricorda così ogni giorno che Bologna siamo anche noi.

*professore ordinario di design, Università di Bologna

 

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