Bologna, oltre 70 casi di malaria in cinque anni

Due su tre sono cittadini stranieri. Viale: "La patologia diventa grave se non viene diagnosticata in tempo"

Pierluigi Viale

Pierluigi Viale

Bologna, 11 settembre 2017 - Dalla morte per malaria della bimba di Trento ai malati curati sotto le Due Torri. Quanti negli ultimi anni? Sono 73 i casi di malaria registrati dall’Ausl da gennaio 2012 agli inizi di settembre: 52 stranieri e 21 italiani. Carrellata sulla suddivisione per classi di età e per genere: 9 maschi nella fascia d’età 0-14 anni, 3 femmine e 9 maschi tra i 15 e i 24, 12 femmine e 28 maschi tra i 25 e i 44, due donne e 8 uomini tra i 45 e i 64 e una donna e un uomo sopra i 65 anni. Scorrendo il periodo, risultano 6 casi nel 2012, diventati negli anni successivi 9, 17, 14, 19 e 8, finora, nel 2017. Anche se nel reparto di Malattie infettive del Sant’Orsola in questi giorni è ricoverata per malaria una giovane donna africana che sta per essere dimessa, quindi un caso in più. «Il nostro servizio è di carattere preventivo – spiega Anna Rosa Gianninoni, responsabile della Profilassi delle malattie infettive dell’Ausl – e nella sede di via Gramsci svolgiamo 1.300 colloqui l’anno con viaggiatori internazionali, quindi tra i 10 e i 15 al giorno. Si possono prenotare direttamente al Cup, anche con una telefonata, e sono gratuiti. Gli utenti avranno il certificato con le loro vaccinazioni già fatte e consigli e informazioni sulla profilassi antimalarica». 

Dall'inizio dell’anno nove persone sono state ricoverate nel reparto di Malattie infettive del Sant’Orsola a causa della malaria. Professor Pierluigi Viale, chi sono i malati?

«Per la maggior parte si tratta di immigrati perfettamente integrati – risponde il responsabile della rete infettivologica interaziendale – cioè persone che qui hanno trovato un lavoro e di tanto in tanto rientrano nei Paesi d’origine, in zone malariche, per andare a trovare i loro familiari e lì vengono punti da una zanzara infettata dal parassita Plasmodium. E al rientro hanno la febbre alta e i sintomi della malattia».

Quindi prima di partire non si sottopongono alla profilassi?

«No, perché in genere non ci pensano. Vanno a casaloro, in aree endemiche – comportandosi secondo la loro cultura –, dove sono vissuti tanti anni sviluppando una semi-immunità alla malaria, perché magari erano stati punti dalle zanzare sviluppando sintomatologie più modeste e guarendo con le cure. Ma per la malaria non esiste un’immunità stabile, chiunque può prenderla più di una volta. E gli immigrati, quando vivono in Europa da molto tempo perdono la memoria immunologica della malaria. Insomma, diventano come gli italiani e vengono colpiti dalla cosiddetta malaria di ritorno. Per fare un esempio, negli ultimi tre anni abbiamo curato tre minori: un bimbo di 6 anni e due ragazzini di 15 e 16 anni, figli di immigranti dall’Africa, tutti e tre nati e vissuti in Italia, che hanno contratto la malaria andando a trovare i nonni».

Quest’anno si sono ammalati degli italiani?

«Sì, uno. Si tratta di un medico che era andato in Africa. E stiamo per dimettere una donna africana, tornata da un soggiorno dai suoi familiari».

Ci si può infettare anche dopo essersi sottoposti alla profilassi?

«Sì. La profilassi funziona, ma è necessario osservare anche idonei comportamenti: cercare di non uscire al tramonto o di notte, usare repellenti e indossare vestiti chiari e soprattutto dormire sotto le zanzariere o con aria condizionata. Infatti, se si viene punti più volte, e quindi vengono iniettati un gran numero di parassiti, c’è sempre la possibilità che la profilassi non funzioni, perché non è un vaccino in grado di generare una risposta immunitaria».

Quando la malaria diventa una malattia grave?

«Se non viene diagnosticata in tempo, il Plasmodium deforma un numero crescente di globuli rossi che, alterati funzionalmente, tendono a impilarsi uno sull’altro nel microcircolo, ostruendolo in modo irreversibile».

Come si arriva alla diagnosi?

«La diagnosi in mani esperte non è difficile, ma il problema nasce con i casi di febbre alta in soggetti che non sono andati nelle zone endemiche, per cui la malattia non viene sospettata e non si arriva tempestivamente a fare il test. Sono casi rarissimi, ma possono accadere. Per esempio, a me è capitato di seguire una donna che si era infettata aprendo la valigia della figlia, che tornava da un viaggio in Africa: evidentemente la zanzara era sopravvissuta in qualche modo al viaggio. Ci siamo arrivati risalendo a tutto quello che la paziente aveva fatto nei giorni precedenti. Quello è un caso di cosiddetta malaria aeroportuale, definita da condizioni in cui accidentalmente il Plasmodium, prenda un aereo o una nave e sopravviva al viaggio».

Ci sono poi anche casi di trasmissione diretta.

«Sì, ma sono rarissimi. Ricordo, quando ero studente al policlinico di Pavia, che un operatore sanitario si era punto durante un prelievo a una bimba colpita da malaria. Fu contagiato, ma grazie all’intuizione di un medico fu salvato con le opportune terapie».

Quando la malaria è così aggressiva da causare la morte?

«L’aggressività varia in rapporto a diversi fattori: prima di tutto il ceppo coinvolto. Il più ‘cattivo’ è il Plasmodium falciparum, che causa la cosiddetta terzana maligna, poi ci sono il vivax, l’ovale e il malariae che tendono a dare malattie meno gravi, ma con tendenza a cronicizzare. Inoltre, bisogna tenere presente i fattori legati al paziente: purtroppo le età estreme della vita rischiano di più, in particolare i bambini piccoli, perché hanno minori capacità di resistere al Plasmodium. La gravità dipende certamente anche dalla carica infettante, ma è molto importante il fattore tempo: più precoce è la diagnosi, più facile è ottenere la completa guarigione del paziente. La forma di malattia più complicata è la malaria cerebrale, assieme all’insufficienza renale».

Oltre al chinino, ci sono nuove cure?

«Sì, negli ultimi cinque anni sono stati commercializzati i derivati dell’artemisia, pianta di origine cinese, che si sono rivelati antimalarici potentissimi e anche poco tossici». 

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