Bologna, 9 maggio 2015 - Vessazioni, controlli e perquisizioni quotidiane, continui cambi di cella. È il trattamento che Fabio Savi denuncia di subire in carcere a Spoleto, dove sconta l’ergastolo per essere stato uno dei capi della Banda della Uno Bianca, che uccise 24 persone e ne ferì oltre cento tra Bologna, la Romagna e le Marche tra gli anni ‘80 e ‘90.
Fabio, 55 anni, l’unico dei tre fratelli Savi a non essere poliziotto, è in carcere dal 1994, trasferito in Umbria dal 2009. Da qui scrive di suo pugno, a mano, reclami, istanze, ricorsi a giudici di sorveglianza, garante dei detenuti, istituzioni varie per denunciare la sua situazione.
In un esposto alla Procura lamenta abuso di poteri d’ufficio: a partire da marzo 2013, vessazioni che «si possono identificare persino in istigazione al suicidio, poiché un uomo condannato all’ergastolo è già ampiamente sconfitto dalla vita», scrive Savi.
Segnala poi il ritiro, a suo dire senza motivo, del computer, mai restituito da febbraio 2014. Un disagio, per lui, perché oltre a non poterlo utilizzare per scrivere gli atti giudiziari, colpisce la sua attività di scrittura, «un percorso - spiega in una delle lettere - che mi avrebbe permesso di presentarmi alla società con un volto diverso, e magari avere di che vivere onestamente un domani, poiché difficilmente potrò trovare lavoro come vecchio ex ergastolano».
Tra l’altro completando un’autobiografia dal titolo ‘Ancora vivo’. Diverse le iniziative giudiziarie: è in attesa della Cassazione dopo il rigetto della richiesta di sconto di pena, assistito dall’avvocato Ada Maria Barbanera. Da tempo ha chiesto un permesso premio, senza successo.
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