Vasco Rossi in tribunale come testimone

Depone al processo contro Stefano Salvati. "Ha tradito la mia amicizia"

L'uscita di Vasco Rossi dal tribunale di Bologna (Ansa)

L'uscita di Vasco Rossi dal tribunale di Bologna (Ansa)

Bologna, 15 febbraio 2017 - "Tutto bene quello che finisce bene. Ci vediamo a Modena, sarà un record mondiale": cosi', con un riferimento al mega concerto del primo luglio al Parco Enzo Ferrari, Vasco Rossi ha salutato i giornalisti uscendo dal tribunale di  Bologna dove è stato chiamato a testimoniare nel processo che vede imputato l'ex collaboratore, Stefano Salvati, accusato di calunnia nel confronti della rockstar di Zocca. Il Blasco si è presentato davanti ai giudici con una giacca scura, occhiali e sciarpa. Per circa un'ora e mezza ha risposto alle domande del pm, della difesa dell'imputato e dell'avvocato di parte civile non rinunciando a qualche frase ironica. "Io avevo nei confronti di Stefano affetto e fiducia e lo consideravo un amico, mi sono sentito tradito nell'amicizia che per me é un valore fondamentale nella vita", ha detto tra l'altro il rocker, per un giorno sul banco dei testimoni. A fine udienza, la rockstar di Modena ha lasciato il palazzo di giustizia entrando a bordo di un furgone scuro. 

IN TRUBUNALE - Ecco tutto quello che ha detto Vasco

Vasco Rossi è arrivato a Palazzo di giustizia di via Farini nel primo pomeriggio per testimoniare (guarda tutte le foto). Accompagnato da carabinieri e da personale di sicurezza, è stato 'scortato' per corridoi interni fino ad uno spazio 'protetto' fuori dall'aula al primo piano. La vicenda ruota attorno a un patto di riservatezza fonte di una durissima disputa fra la rockstar e il regista bolognese Salvati, autore di videoclip e lungometraggi e fidato manager del Blasco con pieni poteri fino alla rottura. Una battaglia legale senza esclusione di colpi, con tanto di causa civile e querele incrociate. Ad aprile 2014, infatti, Salvati citò in giudizio il cantante chiedendo il pagamento della prima rata quale compenso previsto dal patto di riservatezza, a suo dire stipulato nel 2013: sei milioni in 30 anni, 200mila euro all’anno.

Rossi allora querelò Salvati, sostenendo che l’accordo, uguale a quelli sottoscritti con altri collaboratori e attinente esclusivamente al rispetto della privacy, non prevedeva compensi accessori rispetto allo stipendio già stabilito. La Procura fece sequestrare il documento in possesso di Salvati, che contro-querelò l’artista, e poi affidò una consulenza tecnica che concluse per la falsità dell’accordo. Conclusione inevitabile: archiviazione per Rossi, rinvio a giudizio per Salvati, il quale prima ha sostenuto che il documento era stato falsificato, poi ha corretto il tiro dicendo che era stata falsificata la sua firma. Ora sarà il giudice a dover trovare il bandolo dell’ingarbugliata matassa.

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