Bologna, 18 gennaio 2012 - LA CONSEGNA fu chiara: «Niente fronzoli e alla larga dalla cristalleria e dalle decorazioni che hanno edulcorato la favola disancorandola dal suo potenziale di mito». Odette Nicoletti conosce e collabora con Roberto De Simone da almeno trent’anni e sa che quando il maestro ordina non serve mediare, bisogna agire nel suo segno e assecondare la sua visionarietà. Il risultato sono i 170 costumi, simili a tante cangianti gemme preziose che ha costruito in pelle di vitello screziato e colorato, che coprono i corpi artistici dei protagonisti della ‘Turandot’ che inaugura domani sera alle 20 la stagione lirica 2012 del Teatro Comunale.

 

Sette repliche, due cast, trucco e parrucco adeguato alla Cina della dinastia Ming che viene evocata dalla scena impegnano dietro le quinte sarte, coiffeuses, visagiste e a tutto sovrintende lei, di nero vestita ma scevra da ogni scaramanzia con quel suo scialle viola gettato sulle spalle e una vistosa collana di pietre dure intorno al collo. «Ho fatto l’Accademia di Belle Arti a Napoli col preciso intento di diventare costumista. Ho cominciato col teatro off, allo Sperimentale della mia città e per dieci anni non ho fatto altro. La mia prima opera lirica fu il ‘Don Giovanni’ di Mozart, già con De Simone, che esordì proprio a Bologna».

 

DOPO quel contatto iniziale con il mondo del melodramma, la galoppata non si è più arrestata. La Scala, l’Opera di Roma, il San Carlo di Napoli, compositori famosi, direttori da mito. «Ma per me non c’è teatro di serie A e di serie B. Tutte le mie creazioni sono primogeniture e l’impegno non cambia».

 

STAVOLTA l’ispirazione è arcaica e per realizzare gli abiti di scena ha osservato statue, oggettistica, reperti del Celeste Impero. «Ma con un distinguo fondamentale: niente sete, né broccati. L’aspetto finale doveva essere secco, asciutto, lontano anni luce da tutte le Turandot novecentesche. La storia stavolta doveva attingere direttamente al mito non essere una storiella romantica».

 

E ALLORA, a partire dalla scelta del materiale, la Nicoletti ha voluto immergersi nel primitivo del pellame naturale, del vitello. «Bianco. Pezze e pezze di cuoio che sono state poi trattate con un colore che ricordasse pietre dure e metallo sbalzato. L’idea è che sul palco si muovano delle sorti di totem perfettamente integrati con gli elementi scenografici. A parte il principe Calaf che ha invece una sua umanità».

 

Gli altri, le figure come il boia, i suoi aiutanti, le ancelle, i musici e la stessa Turandot sono come sculture sia pure di carne con un’estremizzazione di tale filosofia nell’immagine data al popolo, rappresentato come appendice dei colossi d’argilla che fanno scenograficamente da guardia all’azione. «In questo caso il mio esempio sono stati i guerrieri di Xi’an e la riproduzione di quell’esercito come guardia del palazzo reale l’ho ottenuta usando tela grezza manipolata a effetto terracotta tromp l’oeil. Perché l’obiettivo era evitare ogni aggancio al naturalismo». I mille e più anni della favola dovevano infatti vedersi tutti e creare in chi guarda brividi archetipici.