Bologna, 16 novembre 2013 - UNA VITA sempre in salita. O nella quale, per meglio dire, si deve ogni volta ricominciare da capo. «Perché il carcere ti sbatte sempre sotto, ti ricaccia giù, quando ti sembra di stare per riemergere succede qualcosa e non risali». Sante Notarnicola è questo, preciso, attento, senza fronzoli. E domani alle 21, nella Feltrinelli di via dei Mille, a Bologna, si racconterà, raccontando l’Italia, con Valerio Evangelisti e Giorgio Forni attraverso le pagine della sua nuova raccolta di poesie “L’anima e il muro”, versi di un trentennio, edita da Odradek.

Qualche tappa di quel dover sempre ricominciare? La nascita a Castellaneta nel 1938. Un istituto per l’infanzia abbandonata, in Puglia. Il trasferimento a Torino per seguire la madre emigrata. La militanza nel PCI operaio, quindi nei gruppi antagonisti anarchici. E poi, a 25 anni, in un bar della Barriera a Torino, l’incontro con Pietro Cavallero, l’atto di nascita della banda che con le sue “rapine proletarie” alle banche insanguina il Norditalia, sprezzante, alla Bonnie and Clyde, fino allo scontro finale con le forze dell’ordine, a Milano, il 25 settembre del 1967. Una settimana di fuga, l’arresto, il processo, l’ergastolo (8 luglio 1968) per Cavallero, Notarnicola e Rovoletto.
 

Signor Notarnicola, che cosa ricorda di quegli anni folli, a cui si ispirò Lizzani per il suo “Banditi a Milano?”
«Che mi sembrano lontanissimi e che le nostre azioni furono molto gonfiate dai giornali. Cavallero era intelligente, non organizzava i colpi per i soldi, ma per creare una nuova giustizia sociale. Mi dispiace non averlo più visto».
Da allora in poi Lei è stato un irriducibile, non si è mai dissociato da niente...
«La prego, lasci stare la parola irriducibile, dà un’idea errata. Ho semplicemente seguito un minimo di coerenza».
Perché il suo nome era il primo nell’elenco dei prigionieri di cui le Br chiedevano lo scambio con la libertà di Aldo Moro?
«Ero il solo cane sciolto della lista, che era un manifesto politico, si sapeva che né io né gli altri saremmo stati liberati. Il mio nome era legato alle lotte nelle carceri».
Perché nel ’79, nel pieno della detenzione, iniziò a scrivere poesie?
«Le ragioni furono due. Il carcere è fatto di isolamento, e io ho conosciuto anche Palmi e l’Asinara, la reclusione dura. Isolamento. Privazione degli affetti, della donna, del sesso. Quando ho cominciato a mettere queste cose nei miei versi, e le ho fatte leggere ai miei compagni, mi hanno detto che erano le stesse cose che provavano loro. Ma io volevo anche che il carcere comunicasse con l’esterno, erano gli anni delle battaglie per migliorare lo stato dei detenuti, ancora inaccettabile, e la parola mi serviva a mandare questo messaggio, questa speranza».
Ha ancora in mente qualcuno dei suoi compagni di galera?
«Tanti, tantissimi, tra i detenuti comuni, soprattutto, ho conosciuto una quantità di persone perbene. Vorrei fare il nome di Martino Zicchitella, era entrato in carcere come un malavitoso borghese, dalla bella vita, e nel ’76 è morto in uno scontro armato. Intanto aveva preso coscienza di che cosa sia la condizione di carcerato».
Lei uscì dopo poco più di 20 anni...
«Mi soccorse la legge Gozzini, anche se il mio curriculum non era molto favorevole».
Che bilancio fa della sua vita?
«Sono un pensionato, dopo avere gestito il Mutenye, un locale del Pratello, che ho avuto dal ’95. Dopo l’uscita ho avuto molta fortuna, sapevo che a Bologna c’era gente che mi avrebbe aiutato, anche se io molte volte non ho chiesto».
E il momento politico come lo giudica?
«Spaventoso, e non mi fido neanche tanto della tenuta delle nostre istituzioni. Vedo gente con la faccia livida in giro».

Cesare Sughi