Bologna, 19 marzo 2014 - BISOGNAVA andarlo a trovare, a mezza mattina, negli ultimi anni, nell’ufficio di presidente di quell’Istituto Beni Culturali che ha guidato dal 1992 al 2011. Macché ufficio di presidente, una stanza neanche grande, sommersa, invasa dai libri, dappertutto, sulla scrivania, impilati, sparsi, accatastati. «Perché Ezio», si lagnava la moglie al telefono, «tiene i libri anche sotto i piedi dei tavoli, e non serve a niente che io lo sgridi». Il professore, in quelle mattine, non si sedeva mai alla scrivania — ma come avrebbe fatto, con tutti i libri sopra? —, sedeva leggermente di tre quarti su una poltrona accanto alle finestre che davano su via Galliera, e dopo il saluto delle braccia interminabili cominciava a raccontare. Di Céline, del suo Manzoni senza idillio, di Benjamin, di Dante, di Petrarca, di Nietzsche, di Morandi, di Gadda, di Machiavelli, di Alfieri e del teatro (che straordinaria comunicativa di attore aveva il professore), di Curtius, di Leopardi, dell’amatissimo Renato Serra, dello scibile.

TU TI CHINAVI un po’ in avanti perché la sua voce era già assottigliata, ed entravi senza accorgertene in un mondo che non era solo letteratura (o peggio erudizione), non era solo fatto delle pagine di uno dei capolavori raimondiani ‘Codro e l’umanesimo a Bologna’ (del 1987). Entravi, insomma, nel mondo delle grandi domande, sul destino, sulle angosce, sulla vita e sulla morte, sui luoghi, sulle memorie, su quelle lezioni di Roberto Longhi a proposito di Masolino e Masaccio che l’avevano incantato studente.

RAIMONDI veniva dall’Appennino di Lizzano in Belvedere (quello di Gaetano Arcangeli), era stato un appassionato ciclista, si era cimentato come maestro elementare e come istitutore nel collegio universitario Irnerio. Il padre faceva il calzolaio e il figlio aveva conosciuto il bisogno, imparando da solo il tedesco e mantenendosi con le lezioni private. Piano piano aveva fatto dell’insegnamento un alto compito educativo, dentro e fuori la cattedra di Letteratura Italiana dal ’55 alla pensione, prima a Magistero e poi a Lettere. Quest’origine ha certo pesato. Ripeteva lui, parlando degli inizi: «Insegnare, dunque, era per un verso un mezzo di sostentamento, ma per un altro un’attività che mi consentiva di riscattare il mio stato di necessità col piacere di stare in classe e di sperimentare un minimo incremento di immaginazione o di invenzione».

INSEGNARE perché insegnando si impara. E leggere, come scriveva nel saggio ‘Un’etica del lettore’ del 2007, perché «la lettura non è mai un monologo, ma l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualche cosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza affettiva che può valere anche un atto d’amore».

Il colloquio. La relazione umana. L’analisi critica mai risolta e pronta a risorgere a ogni passo in avanti. Il Mulino, di cui Raimondi fu presidente, è il posto dove quest’idea della cultura come ‘teatro dell’esistenza’, con molta partecipazione umana ma con uno spirito esigente e puntuto, all’americana, è il posto dove, nella Bologna rossa che irride ai ‘mulinisti’ come spie della Cia, il professore che non voleva essere chiamato maestro dirama le sue energie.

NESSUNA posizione condivisa, come va di moda oggi, ma posizioni fondate, sperimentate, senza paura del confronto serrato. «La vita è il paragone delle parole», affermava. Buone queste, buona quella, non si scappa, perché la letteratura non imbroglia per l’autore di ‘Poesia come retorica’, di ‘Politica e commedia’ e delle ‘Voci dei libri’. Raimondi è il docente che accetta la sfida del ’68 e del ’77, spiegando agli studenti che le verità assolute non facevano per lui. Ed è anche quello che, guardando Bologna dalle finestre di via Galliera, si esprime così in un’intervista: «Non bisogna che qui si verifichi quello che il filosofo americano Hilary Putnam riassume nel titolo di uno dei suoi libri: ‘Giocare a bowling da soli’».

NON COMODO l’indimenticabile professore. Non comode le sue tesi sullo scacco della Provvidenza in Manzoni. Non comodo nel giudicare l’università. Ma pronto fino allo sfinimento, fino al fil di voce, come in quelle mattine all’Istituto, a rilanciare le Grandi Domande, le scelte civili, l’impegno per il Sapere e per l’Esistere. «Conservo la mia illusione di essere un io che va alla ricerca continua di un noi, in una battaglia continua con la solitudine». Manca già questa voce. Lieve. Morale. Educata. Civile. Affabulante. E anche severa.

Cesare Sughi