“La Delirium tax è legge nazionale. Non è possibile cambiare di una virgola”

Il sindaco Virginio Merola replica alle polemiche sulla tassa per la pubblicità

Virginio Merola (foto Schicchi)

Virginio Merola (foto Schicchi)

Bologna, 4 marzo 2015 - «Quella che viene chiamata Delirium tax è un decreto legge nazionale del 1993 che riguarda l’imposta su pubblicità. E norma tutto nel dettaglio».

Ancora una volta sarebbe colpa di Roma, almeno questa è la linea di difesa scelta dal sindaco Virginio Merola per rispondere alle polemiche scoppiate nelle settimane scorse. Il tema è la tassa sulla pubblicità, che a Bologna è stata applicata su casi unici: dal fumetto esposto in vetrina, al cartello ‘Self service h24’, fino alla pubblicità del servizio Sos Vita.

Il nostro giornale ha raccontato il ritorno della Delirium tax in città svariate settimane fa. Ne era a conoscenza?

«Vorrei chiarire che stiamo parlando di un caso che è stato affrontato già nel 2009. C’erano problemi di applicazione dovuti a una normativa statale molto rigida e scrivemmo un verbale, assieme alle associazioni economiche, nel quale si chiarirono le questioni di dettaglio che era possibile chiarire. Il menù, la lista prezzi e ogni ‘patachino’ che comportava disagio è già stato affrontato».

E si paga o non si paga?

«Si pagano per forza perché la legge è statale e dice che ai fini dell’imposizione i messaggi diffusi per promuovere la domanda di beni o servizi o per migliorare l’immagine del soggetto si pagano».

Eppure in alcuni Comuni non viene chiesto di pagare. «Tutti i Comuni devono applicarla per legge, non si può non applicare. E cambiare attraverso il regolamento quello che è dettagliato, è un atto contro la legge, non si può fare». Allora a cosa serve il regolamento comunale? «L’unica cosa possibile è normare alcune disposizione particolari e da allora noi applichiamo questo verbale».  

Quanta evasione c’è? «Il 96% degli esercizi commerciali paga questa tassa, solo il 4% risulta agli atti con un’omessa o infedele denuncia. Sono 29 su 286 accertamenti in 10 mesi. E non c’è stata nessuna denuncia formale ai nostri uffici. Questo significa che non c’è stata nessuna rivolta fiscale, come invece sembra su alcuni media».  Pagare una tassa non significa che la si paga volentieri. Lei pensa che sia una tassa giusta quella che chiede di fare pagare anche un cartellino con i prezzi in vetrina? «E’ chiaro che stiamo parlando di tasse e non fa mai piacere. Ma non c’è un range di applicazione come nell’Imu. Se una norma ti dice che qualsiasi cosa metti in vetrina la devi pagare c’è poco da fare. I menù, i listini coi prezzi e gli orari non saranno soggetti a imposta a condizione che non si superino i 300 centimetri quadrati, questo abbiamo scritto nel verbale d’accordo con i commercianti».  

Però voi applicate il massimo dell’imposta, a differenza di altri Comuni. «E’ una decisione che è stata presa nel 2008 (giunta Cofferati; ndr). Da allora è rimasta uguale». Quanto pesa nel vostro bilancio l’imposta totale sulla pubblicità? «Per il 2015 sono previsti 5,9 milioni di euro complessivi (cartellonistica, stendardi e anche vetrine)». E a quanto ammonta il buco creato dal mancato trasferimento di fondi da Roma? «Per noi sono 12 milioni, che servono per non aumentare le tasse sulle case a canone concordato».  

E’ possibile abbassare l’aliquota della tassa sulla pubblicità? «Capisce che se stiamo cercando altri 12 milioni...». Insomma, nulla sarà cambiato. «Nulla cambierà perché quello che era possibile cambiare è già stato cambiato nel 2009. Per modificare questa imposta occorre fare una revisione della norma nazionale. Credo che questo tema debba entrare nella più complessiva discussione col Governo sull’esigenza di una tassa unica comunale, chiara e non compartecipata con lo Stato».

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