Il fantasma della cultura

Bologna, 27 maggio 2016 - Nei meandri della campagna elettorale senza campagna si aggira anche qualche fantasma. Qualche argomento abbandonato lì, come un vecchio copertone, lasciato lì per noia o per disinteresse. Come tutti i fantasmi anche questo ha un nome. Cultura. Si chiama Fantasma Cultura (se vi piace, fate voi l’allegro giochetto invertendo il binomio). Perché poi questo nome, Fantasma, se la parola, usata con la minuscola, è una delle più frequentate nei tweet, nei blog, nelle dichiarazioni dei concorrenti alle amministrative? Per il semplice motivo che, inflazionando la definizione fino all’inverosimile - tutto è ormai questione di cultura o non cultura: il cibo, la bici, i viaggi, l’animalismo, il tifo, i graffiti, il vandalismo, via Petroni, la Bolognina, l’educazione, gli anziani, i giovani ecc. ecc. - ci si può anche convincere che il fantasma, dài e dài, si trasformerà in una creratura reale. Al contrario, Fantasma Cultura si è perso nel vuoto un po’ avvilente della campagna senza campagna. Senza, poi, che nessuno si accorgesse del mutamento esploso a Bologna negli ultimi tre, quattro anni: e cioè il passaggio della città da ambiente contenuto entro le storie e le opere d’arte che lo hanno formato nei secoli a contenitore, a emporio delle cose più disparate, importate senza una corrispondente produzione culturale da export. Nodo cruciale dei percorsi di uomini e merci, hub insostituibile dei collegamenti, Bologna si bea della nuova condizione di bazar della creatività. Senza confini, senza limiti, senza battere ciglio neanche di fronte alle mostre più astruse. Purché si faccia festa. Purché giri il turismo (come non eccitarsi per i 2 milioni o più di visitatori l’anno?). Purché il marchio funzioni e la mortadella diventi un must mondiale.

Che cosa aggiungeremo di nostro ai turisti dei pullman di piazza Malpighi, che in un’ora vengono incanalati verso piazza Maggiore, per tornare con un sacchetto di gastronomia mentre i motori del mezzo sono gi, accesi, ecco, questo non è dato sapere. Non per MAMbo. Non per le strategie espositive. Non per selezionare i troppi festival. Non per una costante collaborazione con i musei universitari. Non nei confronti del Polo Museale Regionale appena istituito. Non, insomma, per la strada su cui si vuol avviare la politica culturale: città vetrina di ciò che accade fuori? Città importatrice chiavi-in-mano o esportatrice? Città degli eventi o città- laboratorio come fu negli anni ‘60? Città di qualità o di quantità? Città succursale di Firenze? città dell’innovazione senza tradizione del nuovo? Città del contemporaneo (ahi, ahi), smemorata, e infastidita da Reni e dai Carracci? Aveva ragione quella volta l’ex assessore Ronchi quando, in margine a una conferenza stampa, previde che, con la fine delle Province e del loro lavoro di collegamento sul territorio, il turismo avrebbe preso il posto della cultura. Cosa che potrebbe apparire azzardata, e che è invece ciò che si sta verificando. Certo il dopo elezioni smentirà il gufo che volteggia in queste righe. Ma ridare anima allo spettro non sarà facile. E tanto più con il nuovo assessore alla Cultura, leale e appassionato, tenuto a bagnomaria al pari di un ospite. E con i giochi di corridoio sempre oscurati per i cittadini. Anzi, oscuri. Come nelle avventure di fantasmi. 

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