Premio Mascagni, la ricetta anti-crisi di Tinti & Tolomelli / VIDEO

L'impresa di Castel Maggiore: "Lavori più grandi e complessi: è stata la nostra arma"

La Tinti&Tolomelli di Castel Maggiore

La Tinti&Tolomelli di Castel Maggiore

Bologna, 19 settembre 2017 - Sessantanove anni di lavoro. Tanti ne ha collezionati Raffaele Tolomelli, fondatore e amministratore unico della Tinti&Tolomelli di Castel Maggiore. Da operaio a imprenditore, da due soci (lui e il suo socio dell’epoca, Paolino Tinti) ai 23 dipendenti del periodo antecedente alla crisi. Che ha colpito duro anche loro: molti in quegli anni, nel mondo della carpenteria, alla fine hanno chiuso. La Tinti&Tolomelli (oggi con Tolomelli c’è il figlio del suo socio di un tempo, Pierluigi), ne è uscita nel modo più semplice e rischioso: rilanciando».

Tolomelli, sessantanove anni di lavoro vuol dire aver cominciato nel 1948. Quanti anni aveva?

«Quattordici e mezzo. Ero il primo figlio, e mio padre morì a 33 anni. C’era da industriarsi, e lo feci. A 19 anni ero capo reparto. Con il mio socio decidemmo di metterci in proprio: l’azienda dalla quale uscimmo faceva carpenteria meccanica, noi all’inizio ci accontentammo di qualunque lavoretto: balconi, portoni, strutture in ferro...».

Il salto di qualità?

«Sapevamo fare di meglio di un balcone, così dopo un po’ iniziammo a proporci alle aziende meccaniche. Le cose ingranarono, ci ingrandimmo, cambiammo sede: l’ultima, quella dove siamo oggi, l’acquistammo nel ’71».

Poi arrivò la crisi, che colpì durissimo i contoterzirsti come voi.

«E soprattutto chi, come noi, realizzava prodotti piccoli e semplici. Per fortuna avevamo fatto le formiche, tenendo i guadagni in azienda. Ma non saremmo durati senza cambiare».

Quale fu il cambiamento?

«Decidemmo di giocare in attacco: la crisi cancellava le piccole produzioni? Noi abbiamo iniziato ad attrezzarci per farne di molto grandi...».

Parliamo di dimensioni?

«Siamo passati dalla realizzazione di piccoli pezzi a strutture fino a 80 quintali per 14,5 metri di lunghezza».

Chi sono i vostri clienti oggi?

«I costruttori di macchine utensili e automatiche, a cui noi forniamo la base in lamiera o la struttura esterna».

È bastato per tornare a crescere?

«No, per farcela, oltre che sul prodotto, occorreva ampliare il mercato».

In che modo?

«Abbiamo iniziato a frequentare le fiere estere, cosa mai fatta prima. Per due anni spendemmo soldi senza guadagnarci nulla. Finché non arrivò un contatto con un rappresentante. Fu la prima di due grandi svolte».

E la seconda?

«È stata merito di Confindustria, bisogna dargliene atto. Hanno convinto noi e altre imprese complementari a unirci in una sorta di rete. È nata Isbo: un gruppo di aziende che lavorano per conto proprio, ma condividono contatti e commesse. Così quando lavora uno, lavorano tutti. Funziona.

Oggi siete presenti anche in Germania. Un mercato esigente.

«La trafila è stata lunga, tra contatti, sopralluoghi, test. La prima commessa andò bene: ‘Qualità ottima – ci dissero –, ma avete consegnato con un giorno di ritardo’. Un giorno, si rende conto? In Italia, delle due, sarebbe un merito. Ma, vien da sé, ci siamo adeguati...».