Bologna, 1° agosto 2010.«COME mi sento? Come uno di quei quei giocatori nigeriani che dichiarano 22 anni anche se all’anagrafe ne hanno 38. E poi, per ‘Sorrisi e canzoni’ sono del 1948 e per la Rai del ’52». Andrea Mingardi dribbla così i 70 anni che compirà oggi, «in casa con mia moglie e alcuni amici». E il più black dei musicisti bolognesi, cresciuto a rock e blues e a sfide di biliardo nel bar Panoramica, aggiunge subito: «Continuo a essere proiettato sulle mie passioni, adesso per esempio sto ultimando un giallo che uscirà a fine agosto. Ho degli armadi pieni di fotografie che ordinerò fra una trentina d’anni».

Mingardi è un fiume. Un affabulatore. Da qualunque parte si porti il discorso, si cade bene. Canzoni. Pittura. Cinema. Jazz («Che maestri Henghel Gualdi e Piergiorgio Farina»). Bologna. Il Bologna. Bulgarelli. E la politica. E «quelle notti al Continental, la tavola calda che stava davanti all’Arena del Sole, con Chet Baker e Miles Davis, o certe mattine al film della mattina al Centrale, alle 10,30, con i componenti del Modern Jazz Quartet». Roba leggendaria. Epopea. La carriera di un’autodidatta. Un artista on the road con le radici ben piantate qui.

Perché non ha mai lasciato la sua città?
«Tanti altri se ne sono andati, per poi tornare. Io non ho mai voluto avere a che fare con il potere, e il potere è a Milano a Roma. E i veri potenti, che stanno là, se potessero, Bologna la distruggerebbero».

Come incontrò Mina?
«Facevo una serata a Modena, con il mio primo gruppo, i Golden Rock Boy. Entrò il maestro Tony De Vita, che mi invitò al tavolo e mi propose di entrare all’Italdisc. Con lui c’era una ragazzina, che faceva la cantante con il nome di Baby Gate. Era Mina. Ci scambiammo il telefono, e dopo del tempo lei mi richiamò, restammo in contatto. Nel ’76 composi ‘Datemi della musica’, che poi lei riprese. E nel 2006 duettammo nella canzone ‘Mogol Battisti’, contenuta insieme a parecchie altre mie nel suo album ‘Bau’. Un grandissimo onore».

Perché ha deciso di usare il dialetto per il blues e per il funky?
«Non sono un purista. Sia nei pezzi che nei libri, come ‘benéssum!’ o come ‘Socc’mel’ ho cercato di cogliere la gente comune, gli angoli di Bologna, la vitalità della nostra parlata e del nostro carattere».

Ma il cuore è solo rossoblù?
«Sì, anche se siamo già abbastanza vecchi per non avere la forza di impegnarci di più nel Bologna e da ricordare l’ultimo scudetto».

Ci vorrebbe un Bulgarelli sia per la squadra sia per Bologna?
«Se qui ci sono ricchi che investono niente o poco sia nella squadra sia nella città, forse è proprio perché manca un catalizzatore di gioco, una mente, come era Giacomino. Al di là di tutto, questa è una grandissima città, l’università, il Liber Paradisus e la liberazione di servi della gleba nel ’200, il jazz. Ma noi non siamo abituati al rapporto con la realtà di oggi, se passi nei media sei grande, se no no. Penso a come massacrarono Mondino Fabbri, Perani e Bulgarelli dopo la Corea, e al trattamento opposto riservato a Lippi».

Lei è uno che sa coinvolgere, anche i colleghi...
«‘Ciao ràgaz’, l’album nel quale sono intervenuti Morandi, Dalla, Carboni, Guccini, e altri ancora, resta un punto fermo per me. E potrei aggiungere anche il lavoro che facciamo insieme con la Nazionale Cantanti. Ma vorrei ricordare il concerto del 23 marzo, con il quale ho portato, grazie anche al forte appoggio del ‘Carlino’ 11mila persone alla Futurshow Station per il restauro di Santo Stefano. Se fossimo passati attraverso i manager non ce l’avremmo mai fatta».

Come vede, oggi, la sua avventura in consiglio comunale?
«Mi addolora l’uscita di scena del sindaco, per vicende che non si conoscevano. Ma io sono più utile all’esterno, senza divisa, anche se sono note le mie idee. Quando, poi, dopo avere proposto il pronto soccorso per gli artisti, mi sono sentito ribattere che ero in conflitto d’interessi, ho capito che non avrei potuto realizzare ciò che mi interessava. La mia presenza, per dir così, non serviva. Tanto più che qualunque cosa tu voglia decidere qui, alla fine deve essere approvata da Roma».

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?
«Ce ne sono molti, è banale dirlo. Ma ai primissimi posti c’è l’emozione che ho provato il 22 febbraio del 2008 sul palco del Chinese Theatre di Hollywood, presentando alcuni brani dell’album dedicato a Ray Charles, davanti a una platea di 800 persone con le tre prime file piene di celebrità del cinema. Pensi un po’, per me che che ho nel grande schermo la passione che riunisce tutte le altre. Ma poi capita anche, come una volta a Rio, di sentire dal pubblico levarsi il grido ‘Sfighè’! Era un italiano di Casalecchio. ‘Sfighè’ è il titolo di un album del 2006, ma chissà, forse è anche un manifesto universale».

Domani è il 30° anniversario della strage della stazione. Che pensieri fa?
«Che quando Bologna sta cercando di assurgere alla qualità di vita e di immagine che le è propria, c’è qualcuno che le dà una botta. I famigerati misteri di cui parlava il ministro democristiano Paolo Emilio Taviani non lo sono davvero. C’è gente che sa».

Fine della puntata. La prossima fra 700 anni o 7.000. Con Mingardi non puoi mai star sicuro.