Bologna, 18 settembre 2011 - HA LA VOCE breve, chiara come il volto, un po’ mistico e solitario, gli occhi e i concetti che esprime, così, alla mano, nella cucina della casa dove vive dalle parti di via Toscana. Steve Grossman, newyorkese del 1951, non parla da protagonista del jazz, quale invece è per carriera e per gli allori raccolti dal suo sax. L’uomo detesta apparire. Preferisce la vita placida del quartiere, due chiacchiere con il gelataio o con qualcuno al mercatino, lì a due passi. Sono ricordi. Aneddoti. Curiosità. Ma anche drammi di un’esistenza «che è stata per anni quella di uno zingaro del jazz, e che dal 1989, dopo due anni passati a Latina, mi vede stabilmente qui a Bologna».

Perché scelse la nostra città?
«Fui spinto da Alberto Alberti, l’uomo che ha portato il jazz a Bologna. Io qui avevo suonato nel 1972, con Elvin Jones, che nei primi anni ’60 era stato il batterista di John Coltrane. Alberti aveva carisma, amava il jazz e i musicisti, e di musica ne capiva».

Che cos’è successo dal ’72 all’89, prima che si fermasse qui?
«Ho girato e rigirato il mondo in tournée. Europa, Stati Uniti, Sudamerica dove sono rimasto a lungo, Giappone, la Jugoslavia, i Paesi dell’allora Est comunista, suonando con Chet Baker, Michel Petrucciani, Cedar Walton, Dizzy Gillespie e altri big. Un ritmo frenetico. Avevo debuttato appena diciottenne con Miles Davis, prendendo il posto nel suo gruppo di Wayne Shorter. Ma di lì a poco Miles, a cui piacevano molto i soldi, si orientò verso la fusion. Fu così che io mi allontanai e scelsi la formazione di Elvin Jones, la pulsazione ritmica del jazz, l’hard bop, anche se più tardi Davis cercò di richiamarmi. Con lui avrei guadagnato molto meglio».

Chi ricorda di più tra i musicisti con cui ha suonato?
«Chet Baker era inarrivabile, a New York abbiamo abitato nella stessa casa».

Anche lui visse per un po’ a Bologna, dove il professor Lo Bianco, un appassionato di jazz, gli curò i denti distrutti dall’uso della droga...
"L’ho sentito dire, ma eravamo negli anni ’60, io ero un ragazzino».

Quando nell’89 arrivò a Bologna che cosa cercava?
«Dovevo fermarmi. Avevo già fatto per troppo tempo lo zingaro, da un capo all’altro del mondo, senza mai un punto fermo. Oltre ad Alberti mi aiutò nell’inserimento, Sandro Berti Ceroni — oggi il mio manager — che nel ’90 organizzò la rassegna ‘JazzBo’ a cui presi parte insieme, fra i tanti, a Steve Lacy e Art Taylor».

Che cosa sapeva della città?
«Niente. Solo dopo venni a sapere che era una città rossa. La trovai gradevole, comoda per gli spostamenti, un posto di provincia dove però arrivavano concerti, spettacoli, eventi internazionali. Ma ciò di cui io avevo bisogno era soprattutto guarire».

Ha voglia di raccontare?
«E’ presto detto. Alcol e droga. Avevo oltrepassato qualsiasi livello di guardia. Specie con l’alcol».

E come ha fatto a uscirne?

«Così», e intanto, nella cucina inondata di caldo e di sole, Steve brinda alzando un bicchiere colmo di acqua minerale naturale.

Quanto è stata dura?
«Il primo anno suonare senza bere fu un inferno. Ma allora realizzai che le droghe non ti fanno pensare, che ti fanno saltare il cervello».

Adesso come sta?
«Molto meglio di vent’anni fa. E non ho certo perso di vista, in tutto questo tempo, la mia attività né la voglia di cimentarmi in essa».

Che insegnamento ricaverebbe per i giovani?
«Quello di non commettere gli errori che ho commesso io. A quelli a cui piace suonare il jazz o qualsiasi altro genere, voglio dire che tra alcol e droga da una parte e musica dall’altra non vi è nessun rapporto. Se ami davvero la musica hai tutto quello che ti basta».

Quanto è cambiata Bologna in questi vent’anni?
«Io esco poco, pochissimo, solo per le serate che mi danno da vivere, specie al Bravo Caffé e alla Cantina Bentivoglio, ma anche in Italia e fuori. Non posso dire di avere il polso della città. Ma mi accorgo che è cambiata un po’ in peggio, accade così dovunque, anche a New York. Venti, trent’anni fa a Bologna c’erano più locali dove si suonava, c’era più energia in giro. Era davvero la capitale europea del jazz. Ora, come afferma qualcuno, mi pare che ci siano troppi bar-aperitivo, troppi happy hours».

Mai immaginata qualche diavoleria elettronica per il suo sax?
«Scherza? Non ci penso nemmeno. Non è che non so usare il computer, è che quella roba con il jazz non c’entra proprio».

Steve accenna ad alzarsi dalla tavola. Forse il colloquio comincia un po’ ad affaticarlo. Valerio Pontrandolfo, il trentaseienne di Potenza stabilitosi anche lui qui per studiare alla scuola di Grossman, estrae dalla custodia il proprio sax e gli porge il suo, che per il lunghissimo uso ha del tutto perso la cromatura dorata. Nella stanza accanto il maestro e l’allievo — che dal 2005 fa parte del grossmaniano Two Tenors Quintet — improvvisano una sfida in cui i due sax dialogano, si sorridono, battibeccano, si punzecchiano, si tendono trappole. Steve sembra piantato nel pavimento, impassibile, potente.

Chiedo se i ragazzi abbiano oggi passione per le blue notes: «Credo di sì — risponde Grossman finita la session purtroppo brevissima —. Anche l’organizzazione di un avvenimento come ‘Bologna, la strada del jazz’, con l’omaggio a Chet Baker e ad Alberti, lo dimostra. Purtroppo i tempi sono bruttissimi, potrebbe accadere qualunque cosa, anche una guerra».
Insieme al quintetto di ‘amici’ — Piero Odorici, bolognese, al sax, Valerio Pontrandolfo sax, Danilo Memoli piano, Aldo Zunino contrabbasso, Alessandro Minetto batteria — Grossman si è esibito ieri sera alla festa del jazz in piazza Galvani. Amicizia. Storie personali e musicali che si lasciano, si ritrovano e tornano a intrecciarsi. Diceva Charlie Parker: «Se la musica non fa parte della tua vita, non potrà uscire dal tuo strumento».