Bologna, 1 marzo 2012-  Il ricordo di Marco Guidi, amico d'infanzia di Lucio Dalla

 

"Era il più piccolo di tutti noi, ma giocava benissimo a basket e anche a calciobalilla, suonava da dio il clarinetto. Ma soprattutto aveva una sensibilità istintiva e del tutto particolare, quasi da gatto, direi ora. Una sensibilità che gli faceva intuire molte cose e che lo rendeva in qualche modo certo del suo futuro. Con Lucio ho trascorso gran parte della mia adolescenza. Abitava in Piazza Cavour con la madre, era una casa modesta in un palazzo nobile, si saliva una scaletta di servizio e si entrava a sinistra dell’ingresso, lì c’era la sua piccola stanza, un giradischi e qualche libro (mi ricordo “Americana” di Vittorini). Lì abbiamo passato gli anni a chiacchierare, a dire battute, a immaginare cosa avremmo fatto da grandi. C’ero io, c’era Gianfranco Baldazzi, che avrebbe poi scritto le parole di “Piazza Grande”, c’era Angelo Battistini, futuro psicanalista, c’era ogni tanto Franco La Polla e poi Ruggerino.

Miti, attore e produttore tv, qualche anno dopo sarebbe arrivato giù da Monghidoro Gianni Morandi. Quando il tempo lo consentiva, invece che nella stanzetta, stavamo in piazza. Lucio di noi era quello che parlava meno, ma che aveva già le idee chiare. Il suo futuro sarebbe stato la musica. Anche perché il liceo Galvani non è che lo interessasse molto, tanto da interrompere gli studi. Erano anni senza una lira in tasca (la madre di Lucio viveva facendo la sarta), ma pieni di idee, di voglia di conoscere, di fare. Lucio incise la sua prima canzone “Lei”, nessun successo, ma era davvero bellissima. Allora Gianfranco iniziò a pensare di passare dalle poesie che scriveva sui soliti quaderni ai testi musicali. Mi ricordo che un giorno li guardai e dissi: "Tu Lucio farai fortuna come cantane, tu Gianfranco sarai un grande paroliere, io farò il giornalista e parlerò di voi".
 

Lucio era il collante che ci teneva insieme, pieno di problemi (come tutti a quell’età) con un rapporto irrisolto con la madre, con un’infanzia di bambino prodigio (cantava, suonava la fisarmonica e recitava) di cui, non so perché, si vergognava, un giorno ci capitò una sua foto da piccolissimo, con fisarmonica e braghini corti, ce la strappò quasi di mano, lui che di noi era il meno violento, quello che non aveva mai fatto a botte nemmeno una volta. Ogni tanto inventava storie bellissime e del tutto false, ma ci portava per un poco in mondi fantastici dove lui diceva di vivere. Cominciò a suonare in giro per l’Italia con i Flipper, tornava, raccontava le sue avventure immaginarie. Poi vennero altre canzoni, una gavetta lunga, faticosa, sofferta. Quando a Sanremo cantò “4 marzo 1943” capimmo che Lucio aveva preso il volo. Che i nostri giorni in piazza Cavour erano finiti.