Bologna, 6 marzo 2012 - Sono nell’iPod di Barack Obama, insieme con U2, Aretha Franklin e Al Green. Rifuggono però la notorietà e i mercati “drogati” dalle case discografiche, tanto da aver fondato un’etichetta indipendente, la dBpm, e un festival musicale. I Wilco suonano tanto e parlano poco, ma il loro frontman Jeff Tweedy rompe l’usuale silenzio perché «in Italia ci amano quasi più che in America e noi amiamo voi e il vostro sole». Dalla scena post country di inizio anni Novanta al ruolo di cult band del mondo indie rock, i Wilco sbarcano giovedì a Milano all’Alcatraz e venerdì all’Estragon di Bologna (esaurito). Le uniche due tappe italiane del tour del cd “The Whole Love”, quasi una dichiarazione d’amore: «Noi cult? No, facciamo solo musica», dice Tweedy.


Il vostro ultimo album si chiama “The Whole Love’, tutto l’amore: cosa significa?
«La canzone “The Whole Love” l’avevo scritta molto tempo fa. Poi una sera guardai in tv una serie poliziesca dove un detective parlava di un sospettato di un delitto e di come stesse per rendere piena confessione. Il poliziotto aggiunse che l’uomo “stava anche per rendere tutto l’amore”. Ecco, quella frase mi sembrò completa e allo stesso tempo misteriosa. Ed ecco perché l’ho scelta: tra musica, musicisti e fan c’è un rapporto d’amore, completo e misterioso».
 

Da “Yankee Hotel Foxtrot” a oggi i Wilco sono cambiati moltissimo. Ma da qualche anno c’è più stabilità nella band: vi ha aiutato a maturare?
«Ormai siamo vecchietti, ma la nostra è una grande famiglia. Elettricisti, tecnici del suono, attrezzisti: tutti sono parte di qualcosa e questo vogliamo trasmettere al pubblico. Wilco è un processo creativo di gruppo, non di Jeff Tweedy.Poi, dopo tanti anni, iniziamo ad avere voglia di stabilità e indipendenza».
 

Ecco, l’indipendenza. Avete fondato una vostra etichetta discografica...
«La libertà creativa è qualcosa che abbiamo cercato ostinatamente per anni: il mondo è cambiato e anche i Wilco vogliono più responsabilità. Il tradizionale business dei dischi è in difficoltà e non mi sembrava equo il lavoro che facevamo, messo in relazione con le percentuali che si andavano poi a dividere. Non voglio fare il produttore, ma potersi fidare ciecamente dei collaboratori nella creazione di un album è basilare».
 

E il festival?
«È stata un’opportunità per fare qualcosa di divertente. Abbiamo avuto accesso al Museo del Massachussetts, un posto fantastico. Ora ci piacerebbe farlo on the road».
 

Anche all’estero?
«Perché no, sarebbe davvero bello. Magari in Italia... Ma forse è complicato. Di certo il festival dà la possibilità di far conoscere i tuoi gusti musicali alla gente».
 

I suoi quali sono?
«Sono un ragazzo cresciuto a Beatles, Beach Boys e Bob Dylan: che chimica e magia nelle loro canzoni. Magari l’avessimo anche noi...».
 

Intanto la vostra musica è diventata un punto di riferimento per tanti, in primis il movimento di “Occupy Wall Street”. Può la musica sostituire la politica?
«E’ incoraggiante vedere che la gente che protesta in realtà vuole fare politica e si sente parte di qualcosa. Protestare, se non è violento, è un segnale di vita. Io però separo sempre musica e politica: sono un musicista, tutto qua. Aiuto la gente ad avere una percezione delle cose migliore, posso avere una funzione consolatoria. Non posso, e non voglio, essere però un politico. Mi basta parlare al cuore della gente e dare tutto l’amore».