Bologna, 13 aprile 2012 - UN BEL SOSPIRO di sollievo. Il Bologna è tornato nei suoi panni abituali. Aveva ragione Pioli: la sua squadra non si è persa. Buon segno: l’allenatore sente ancora il polso della squadra. Che non arriverà con la lingua di fuori, come è capitato un anno fa a quella guidata da Malesani.

La differenza è proprio questa. Se la critica è (quasi) unanime nel sostenere che il Bologna di quest’anno non sia forte come quello della passata stagione, va da sé che a fare la differenza siano due fattori: uno, appunto l’allenatore. L’altro è lo spirito di squadra. Così, stabilito che avere un tecnico che nel finale di una stagione tenta di gettare le basi per la prossima sia una fortuna che il Bologna non ebbe con Lupo Alberto, di questi tempi in prossimità di trovare un accordo almeno verbale con il Genoa, si può passare oltre e discutere l’effetto che, chiamiamola così, la spaccatura nello spogliatoio avrebbe sul cammino della squadra. Nullo. Non si discute qui la diversità di carattere e di interpretazione del ruolo di leader che esiste fra i big dello spogliatoio. Lascia pure che ci sia. E’ che, come diceva Pioli, non può essere questo a condizionare il rendimento del Bologna.

IL DIFFERENTE carattere e il differente modo di vivere la vita di calciatore non può, nel 2012, essere oggetto di default. Non può e, in ogni caso, non deve. A meno che Bologna non si voglia segnalare come l’unica squadra di serie A dove i concetti del professionismo lasciano spazio alle beghe personali. Ha iniziato Arrigo Sacchi a ripeterlo ossessivamente a metà Anni Ottanta e ora il suo concetto preferito è diventato dogma: prima la squadra poi i singoli, altrimenti non si va da nessuna parte.
Il Bologna ieri ha giocato con il cuore e ha giocato come una squadra decisa a ribellarsi al supplemento di difficoltà che la vittoria del Lecce a Catania sembrava proporgli. Un Bologna meno preciso rispetto ai suoi giorni migliori, ma tosto allo stesso modo.

di Stefano Biondi