I 50 anni di Pagliuca. “Mi sento a casa solo se vedo San Luca”

Grande festa per ‘il gatto di Casalecchio’, dalla Ceretolese alla finale mondiale ’94. "Il regalo più bello? La salute"

Gianluca Pagliuca (Foto Schicchi)

Gianluca Pagliuca (Foto Schicchi)

Bologna, 17 dicembre 2016 - Il 'gatto' è stagionato, ma sempre tirato a lucido. «Un gatto di piombo...», ci scherza sopra lui, a dispetto di un fisico che tanti ventenni non hanno e che oggi Gianluca Pagliuca coltiva dividendosi tra calcio (è il coordinatore dei portieri della Primavera rossoblù), tennis («do ancora la paga a parecchi») e basket («ti garantisco che a rimbalzo mi faccio sentire»). La notizia è che domani, domenica 18 dicembre, Pagliuca taglia il nastro delle 50 primavere.

Era il 18 dicembre 1966 quando Gianluca Raimondo (questo il suo secondo nome all’anagrafe) vedeva la luce alla maternità del Sant’Orsola. Quattro chili e mezzo alla bilancia: il peso giusto per chi sarebbe poi diventato una delle Torri di Bologna. 'Gatto di Casalecchio' o ‘Sanluca’ Pagliuca che dir si voglia, da Ceretolo il nostro si è messo in cammino alla conquista del mondo. Scoperto dal fiuto di Pietro Battara, che lo forgia nel vivaio di Casteldebole, a vent’anni viene ceduto alla Sampdoria del presidente Mantovani per 300 milioni di lire. E’ l’inizio di una sfolgorante carriera, coronata di allori. Sommando le 7 stagioni alla Sampdoria, le 5 con la maglia dell’Inter, le 7 col Bologna e l’appendice di Ascoli, fanno 638 gare ufficiali, di cui 592 in serie A (è quinto nella classifica ‘all time’) e una selva di trofei: con la Sampdoria uno scudetto, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa italiana e tre Coppe Italia; con l’Inter una Coppa Uefa. Più le 39 presenze in azzurro e il titolo di vice campione del Mondo a Usa ‘94. Dietro vent’anni di trofei, però, c’è l’uomo. Che a cinquant’anni ha conservato il tratto saliente di chi è salito sul tetto del mondo, ma non per questo se la tira.

Pagliuca, domani sono cinquanta: auguri.

«Cinquanta! E sono volati. Mi sembra ieri che salivo col borsone sulla corriera per andare ad allenarmi a Casteldebole. E la sera, quando riuscivo, Vertigo, Ciak e Living: in discoteca con gli amici».

Il suo lungo viaggio è cominciato alla Ceretolese: molto pallone e poca voglia di studiare.

«Scrivete pure: voglia di studiare zero. Il calcio, invece, mi ha preso fin da cinno. Ero bravino in porta, ma me la cavavo anche fuori: per questo qualche volta facevo il portiere e qualche volta l’attaccante. I miei primi allenatori furono Schincaglia, Maccagni, Zanni e Bellotti. Poi un bel giorno hanno deciso che non dovevo più spostarmi dai pali ed è stata la mia fortuna».

Sampdoria, Inter, Bologna, più i tre Mondiali in maglia azzurra. Gioie e dolori?

«La gioia più grande è stato lo scudetto con la Samp (stagione 1990-91, ndr). Per tre notti non ho chiuso occhio: mi sembrava di camminare sulla luna».

Un anno dopo invece è tornato bruscamente sulla terra, quando la punizione di Ronald Koeman nei tempi supplementari regalò la vittoria al Barcellona nella finalissima di Wembley in Coppa Campioni.

«Fino a quel momento avevo parato l’impossibile: ma quel destro fu veramente imparabile. Da quella volta Koeman non l’ho più rivisto. Se succedesse gli stringerei la mano e gli direi che quella notte mi diede un grande dolore».

Non il più grande in carriera, però.

«No: il più grande è stato la retrocessione in B col Bologna nel 2005. Da capitano, dopo che avevamo chiuso la stagione con la quarta miglior difesa della serie A. Pazzesco».

Però ci metteste molto del vostro, assopendovi a Pasqua quando eravate in zona Uefa.

«Sì, ma la mazzata ce la diede Calciopoli: e più di tutti la Juve. Ecco, la Juve in carriera mi ha tolto un pezzo di vita e almeno un trofeo. Non ho mai ingoiato il rospo del rigore negato da Ceccarini per il fallo di Iuliano su Ronaldo in quello Juventus-Inter del ‘98».

Calciopoli, nonostante sentenze di condanna definitive, divide ancora.

«Quando sento gli juventini che fanno le vittime, mi sale la rabbia. E dire che da piccolo per un breve periodo simpatizzavo per la Juve. E il mio mito era Zoff».

Oggi il suo mito chi è?

«Quando vedo la personalità di Donnarumma mi rendo conto che siamo di fronte a un predestinato. Un po’ mi rivedo in lui. Con la differenza che io, grazie a Boskov, sono diventato titolare in serie A a ventun anni, lui a sedici».

Il compagno di squadra più forte?

«Ronaldo. E’ assurdo che quell’Inter abbia vinto solo una Coppa Uefa: per la qualità che aveva avrebbe meritato qualche trofeo in più».

Un flash dei suoi anni in azzurro.

«Se penso a Usa ‘94 mi viene il magone. In quella finale col Brasile in fondo però feci il mio, parando il rigore di Marcio Santos. Purtroppo noi ne sbagliammo tre».

E svanì il sogno.

«L’unica cosa positiva fu tornare a casa: tre mesi di ritiro con Sacchi vi posso assicurare che sono molto, ma molto pesanti».

Lei a Usa ‘94 divideva la camera con Donadoni: come convivevano un ‘bohemien’ come lei con un metodico come lui?

«Golf, golf e golf: Roberto in televisione guardava solo quello. E in allenamento era una macchina: il gruppo lo tirava sempre lui».

Pure lei, però, si allenava come una macchina.

«Io mi allenavo anche quando avevo una contrattura. E ho giocato un derby col Milan, che poi vincemmo 3-0, con uno stiramento all’adduttore. Venni a Bologna a curarmi di nascosto all’Isokinetic, il dottor Nanni non credeva che potessi farcela. Ho preso più Aulin in quei giorni che in tutto il resto della mia vita».

L’altra sua grande passione è la Virtus. Come nasce il feeling coi canestri?

«Giocavo a basket da bimbo e ci gioco ancora, nel torneo del Csi. Son cresciuto nel mito della Virtus di Caglieris e Cosic. Ricordo che per vedere il quarto di finale di Eurolega con la Fortitudo, nel ‘98, il giovedì lasciai il ritiro dell’Inter senza il permesso di Gigi Simoni. In parterre mi ero messo in ultima fila, ma la telecamera mi pizzicò subito. Tre milioni di multa e via andare».

Contento che sta per tornare il derby?

«No. Avrei preferito che la Virtus a maggio non fosse retrocessa in serie A2».

Chi è il grande amico nel mondo del calcio?

«Marco Lanna. Ai tempi della Samp eravamo fidanzati con due sorelle: dicevano le più belle di Genova. Nello spogliatoio ci chiamavano ‘i cognatini’».

Calcio e donne: per lei un binomio inscindibile.

«Perché, fa male? Nell’anno dello scudetto c’era questo rito: viaggio in auto da Genova a Bologna la domenica sera dopo la partita, il lunedì sera tavolo al Matis e il martedì pomeriggio in campo a Bogliasco. Oh, in campo le vincevamo tutte!».

Chi ha perso troppi colpi, ultimamente, è il Bologna.

«Due anni fa abbiamo pelato la matta trovando Saputo: quando sento criticare il canadese mi viene da piangere. Sul campo i suoi 42-43 punti questa squadra li farà».

Lei è contento della carriera che ha fatto?

«Quando ero all’Inter Moratti mi voleva vendere in Inghilterra: un’esperienza in Premier, col senno di poi, un po’ mi manca. Ma allora mi chiamò Cinquini, che era il diesse del Bologna: e non ci ho pensato un attimo a tornare a casa».

Tornerà a casa anche Mancini per allenare il Bologna?

«Io credo che alla soglia dei sessanta il Mancio un anno o due a Bologna lo farebbe col cuore».

Le sono già arrivati i primi regali di compleanno?

«Stanno arrivando, e me ne aspetto tanti. Comunque il regalo più bello è la salute: se c’è quella c’è tutto».

Di mamme ce n’è una sola: «E’ lei la donna più importante della mia vita». Parola di uno che non si è fatto mancare molto, in materia. Eppure ancora oggi Gianluca Pagliuca sa benissimo che senza la signora Maria Rosa, la sua vita sarebbe stata molto diversa. «E’ sempre stata fondamentale per me, fin da ragazzo. I miei si separarono che ero giovane, quindi ho passato molto più tempo con lei. Ma ultimamente ho riallacciato buoni rapporti anche con mio padre Pier Luigi. Mia madre è sempre stata al mio fianco. Avevo un procuratore, lei è stata la mia commercialista, è grazie ai suoi consigli che posso dire di aver saputo investire i miei guadagni».

Non si sa ancora se il figlio Mattia, centrocampista dell’under 15 del Bologna, arriverà ai livelli del padre. Di sicuro, se lo farà, non sarà perché dietro a spingerlo ci sono le frustrazioni di un genitore: «Oggi i ragazzi hanno troppe pressioni, e vengono coccolati troppo. Io andavo all’allenamento in corriera da solo, perché i miei non potevano accompagnarmi. Adesso sarebbe impensabile. A Mattia io ho sempre detto di pensare a divertirsi. E’ ancora un ragazzo, anche sul piano fisico deve ancora finire di strutturarsi. L’importante è che vada bene a scuola, diciamo almeno meglio di suo padre…».

Al quale però l’antipatia per la scuola non ha impedito di informarsi e formarsi una coscienza politica abbastanza precisa: «Ho sempre avuto il mito dell’America, adesso ammiro molto Putin. Perché è uno che ha carattere, sa quello che vuole e non ha paura a lottare per il proprio paese. Ultimamente le diverse elezioni mi stanno andando bene: se avessi potuto, avrei votato per Trump, e l’hanno eletto. Avrei votato per la Brexit, e l’hanno fatta, in Inghilterra. Ho anche votato no al referendum, ma quello non è servito a niente visto il governo che ci hanno fatto».

E Bologna? Uno che ha girato il mondo tra club e nazionali, come vede la sua culla, dove per sua stessa ammissione tornava ogni volta che poteva, quando era ‘in esilio’ per lavoro?

«Bologna è più brutta di vent’anni fa, quando giri per strada ti rendi conto che i bolognesi sono rimasti in minoranza, ormai. E’ un peccato, io amo la mia città, le Due Torri, e soprattutto San Luca. Quando tornavo da Milano o da Genova e dopo Modena Sud cominciavo a intravederne il profilo all’orizzonte, mi sentivo davvero a casa».

Ora adesso che i 50 stanno per rintoccare, che progetti ha il Pagliuca rimasto ragazzo, sotto le rughe che non fanno sconti a nessuno?

«L’importante è la salute. Ho una compagna eccezionale, Tiziana, e mi occupo della salute di mia madre. Mi vedo con gli amici storici Alfiero, One, Vittorio e Mauro, gioco a tennis e a basket per divertirmi, anche se il giorno dopo mi vengono i crampi. Soprattutto, sono orgoglioso di una cosa, se faccio il bilancio di questo mezzo secolo. Chi mi conosce, sa che sono una brava persona». Hai detto niente. 

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