Due agosto, quel silenzio alla stazione

Cattivi pensieri

Bologna, 31 luglio 2015 - Talvolta, riandando a quel sabato mattina di partenza di massa per le vacanze, la memoria gioca uno scherzo. Capovolge la sequenza logica. Fa credere che prima sia caduto l’immane silenzio sopra Bologna, e che solo dopo, quel 2 agosto 1980, ci sia stato lo scoppio – oltre 20 kg di esplosivo, l’ordigno più micidiale della storia della Repubblica – che lasciò sul terreno 85 morti e oltre 200 feriti. A meno di un mese, sarà meglio ricordarlo, da quell’altro massacro, l’abbattimento del Dc9 Itavia in rotta da Bologna a Palermo, carico di nostri concittadini: tutti morti gli 81 occupanti. Un uno-due mortale.

Posporre i tempi, prima il silenzio poi la bomba, potrà anche essere uno svago maligno della memoria, «una cucitrice capricciosa la sua parte», secondo Virginia Woolf. Eppure a chi riuscì, sbandando come un ubriaco, ad avvicinarsi da via Rialto bassa (la casa dei genitori) al posto del macello, per strade e palazzi che tremavano ancora, venne incontro il silenzio. Attenti. Mica il silenzio ebbro dello scudetto. Era, davanti alla stazione divelta, il silenzio di una fabbrica, di un ospedale da campo, di guerra, di un gigantesco pronto soccorso, solo che tutto, in mezzo allo strazio e agli ordini, in mezzo ai giganteschi pompieri che prendevano in braccio i corpicini di bimbi all’apparenza intatti ma che appena sollevati si sfarinavano in un pugno di ossa incenerite... ecco, in mezzo a tutto questo, Bologna lavorava. Come se si fosse aspettata il disastro. O come se se ne sentisse più forte.

L’autobus 37 caricava morti e feriti, le ambulanze fendevano i brandelli di carne bruciata, medici e volontari affluivano come un piccolo fiume. Trentacinque anni dopo il segno della strage è ancora qui, con molti anni di inutili manifestazioni antagoniste e fischi al Governo il giorno della ricorrenza, con l’attesa, sempre tradita, dei risarcimenti e di una legge decente contro i depistaggi. Ed è ancora qui, il 2 agosto, sul baratro della smemoratezza. Dato l’onore alle associazioni dei parenti delle vittime, come cresce il ricordo nei giovani? Chi ci pensa? Solita storia, direte, vale per l’Olocausto e l’immigrazione: 35 anni sono ormai troppi per essere cronaca o storia (la scuola non insegna né l’una né l’altra, né la Costituzione o l’11 settembre); 35 anni sono il passato, qualche cosa capitato quando non c’ero, dirà il ventenne di oggi. Ah sì, quella bomba, ma perché quando si va alla stazione si trova sempre quell’orologio fisso alle 10,25, confonde.

La conquista dei ragazzi è ardua, e non basta che una volta l’anno disegnino dei bei foglietti con i nomi delle vittime e li espongano sul portone di scuola. Rischiamo di avere manifestazioni sempre più attempate, da reduci. Proviamo, allora, a raccontargli quel silenzio, fuori dalla retorica politica rossa o nera. Proviamo di buttare nel cestino, per una volta, il gergo politicistico che ai ragazzi non frega niente, anzi li irrita, e apriamo la narrazione calda, appassionata, su quella piazza divenuta un centro di recupero dell’uomo, ferito, malato, morto, dell’uomo fatto a pezzi, dell’uomo indifeso, dell’uomo sconciato (chi vuole trovi confronti con le emergenze attuali).

Quella Bologna fu questo. Accogliere morti e feriti. Solidale. Compatta. Solerte. Pronta. Disinteressata. Ostica per i ricercatori di piste fasulle, per i professionisti del complottismo, come per i politici e gli amministratori capaci solo di promesse. I salvatori di quella Bologna erano gente in gran parte di 20, 30 anni, come figli e nipoti oggi. Il mimetismo, si sa, è la sola arma in grado di fare vivere la Grande Storia. Lo sanno i reduci dei lager che vanno nelle scuole con un successo radioso. La storia è ormai ciò che si tocca con mano, che si ascolta. Dopo di che, può pure darsi che lo scoppio sia venuto dopo e il lavoro prima. Le storie rovesciate, a sorpresa, piacciono ai giovanissimi.

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