Il linguaggio in codice degli jihadisti. L’addestramento diventa "preghiera"

La tesi della Procura è stata però bocciata dal gip: "Solo fanatismo"

Esercitazione di jihadisti (immagine d’archivio)

Esercitazione di jihadisti (immagine d’archivio)

Bologna, 26 novembre 2015 - Pedinamenti, intercettazioni, appostamenti, monitoraggio su internet, controllo dei luoghi di incontro e preghiera. E’ stata un’indagine lunga e corposa quella che ha portato alle recenti espulsioni dall’Italia di quattro marocchini, accusati dalla Digos e dalla Procura di «addestramento ad attività con finalità di terrorismo». Un reato che però non è stato riconosciuto dal gip Letizio Magliaro, che ha respinto la richiesta di arresto per i quattro. Secondo il giudice, infatti, il gruppo (gli indagati in totale sono 12) inneggiava sì alla jihad, scaricando materiale inequivocabile e inquietante da internet, ma non è mai andato oltre. E il solo scaricare video e foto dal web non è reato. Serve altro, serve di più. Cioè una precisa attività di addestramento e incitamento alla guerra santa, con atti concreti come raccolta di soldi o la progettazione di viaggi in Iraq o Siria.

Ma proprio su questo punto la ricostruzione del pm Enrico Cieri e degli investigatori della Digos diverge totalmente dalla visione del giudice. L’inchiesta, partita nel 2010, sfociò nel 2012 in una raffica di perquisizioni in cui fu acquisita una grandissima mole di materiale informatico. Sono serviti anni per tradurre tutto dall’arabo. Per questo le richieste di arresto sono arrivate solo nel 2015. Fatto però che le ha ‘depotenziate’, perché ormai mancava l’attualità dell’eventuale pericolo.

Quello che emergeva, per l’accusa, era un gruppo che, sotto la guida di Abdelali Bouirki, si incontrava, si scambiava materiale, parlava e inneggiava alla jihad. Spesso anche con un linguaggio cifrato. L’addestramento o indottrinamento veniva camuffato, nelle conversazioni al telefono intercettate, con parole neutre quali «preghiera» o «lezione». Bouirki cioè chiedeva ai suoi adepti se erano stati a pregare o a lezione, quando in realtà intendeva se avevano partecipato agli incontri in abitazioni private in cui si era parlato di jihad. Dopo le perquisizioni, ovviamente, il gruppo si è calmato ed è stato sempre più guardingo e non poteva essere che così. Per la Digos, poi, il fatto che lo stesso materiale fosse sui computer di tutti era la prova che se lo passavano fra loro, cioè il capo indottrinava gli altri.

Ma il giudice è rimasto scettico: «Appare di tutta evidenza come tale conclusione sia una mera possibilità – scrive Magliaro –, non fondata su alcuna pregnante attività investigativa, in quanto non risulta svolta alcuna specifica analisi tecnica per verificare la possibilità di stabilire la provenienza dei file ritrovati in possesso a Kaimoussi e Razek (gli altri indagati; ndr) e attribuirla eventualmente a Bouirki. Il mero elemento logico di una comune provenienza di tutti i file rinvenuti nella disponibilità dei due presunti addestrati da parte dell’addestratore, fondata sul fatto che tali file e si ritrovano nella disponibilità di entrambi, non tiene conto di un dato che si ritiene di fondamentale rilievo (...): che tutto il materiale rinvenuto era reperibile e scaricabile (da tutti; ndr) da siti Internet».

 

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