Viaggio nell'Islam. Ventenni velo e moschea, incerti tra due culture

Il sabato a scuola di Corano. Sognando di andar via VIDEO: "Noi musulmani italiani che sogniamo di andare via"; "Io albanese, ho combattuto in famiglia per frequentare la moschea"

Chaima Razgallah, studentessa di origine tunisina

Chaima Razgallah, studentessa di origine tunisina

Bologna, 23 marzo 2015 - Sono nati in Italia ma a vent’anni si sentono più estranei ‘in casa’ di quand’erano bambini (VIDEO: 1 / 2). E sognano di andare via. Incerti tra due culture, crescendo tornano a quella dei padri. Sono i musulmani di seconda generazione – già si affaccia la terza –, e di sabato pomeriggio invece di fare lo struscio vanno a scuola di Islam in moschea. Magari, per essere lì, hanno discusso con i genitori che li vorrebbero più occidentali. Capita anche questo. Abbiamo fatto un viaggio nelle moschee della regione, lo sguardo rivolto ai giovanissimi. Il primo tempo, tra Bologna e Imola. La sorpresa, nel capoluogo: più chiusura di dieci anni fa.

A Bologna oggi si contano più moschee di quartieri, che sono nove. Tra le ultime nate, quella dei bangladesi alla Bolognina, in un vecchio palazzo, l’unica guida è l’insegna. Aperto di recente anche il centro culturale bosniaco, serranda anonima ma sala molto curata. Se t’accompagna uno dei fondatori, le porte si aprono. Anche se alla prima domanda la reazione di un giovane marocchino è curiosa, con il telefonino comincia a filmare il cronista.

L’imam chiede di accomodarsi in ufficio, «per non disturbare la preghiera». Lì, nella saletta ingombra di carte e libri – ecco il Corano tradotto –, Abdullah Seferi, 24 anni, albanese, si confessa. In Italia ha ritrovato la fede. «I miei genitori sono sempre stati contrari. Vivono in Albania, vorrebbero un figlio all’occidentale, che beve e va in discoteca. Ho dovuto combattere, oggi va meglio».

Ogni comunità ha gruppi di fedeli, uomini e donne, che si prendono cura dei ragazzi. Anche questo è dawa, proselitismo. E qui nascono conflitti. Spiega Daniele Parracino, tra i primi convertiti all’Islam: «I ragazzi vanno in discoteca o bevono. Sanno bene che l’Islam vieta tutto questo. Fratelli e sorelle li avvicinano e cercano di spiegare, guarda che per noi fare così non va bene. Proviamo a studiare un po’ l’Islam e a capire qual è il buon comportamento».

E i genitori? «Reagiscono male – ammette Parracino –. Ci chiedono di lasciar stare. Protestano: mia figlia prima era libera e ora mette il velo». Chaima Razgallah, studentessa universitaria di origine tunisina, di sabato pomeriggio aspetta che inizi l’incontro dei giovani musulmani in via Pallavicini, un tempo la moschea madre di Bologna. Indossa un velo colorato, parla con grande tranquillità. «Ho scelto la religione musulmana ma la mia cultura è mista. Non vado in discoteca però la sera esco con gli amici, anche italiani. Vero, la gente ti guarda con diffidenza. Una volta mi sono sentita dire, quella c’ha una bomba, sotto il velo!». Arriva il responsabile, no un giornalista non può seguire l’incontro, così su due piedi no. Entra nel cortile un ventenne italiano, «mi sono convertito seguendo l’esempio della mamma. Foto e nome? Meglio di no». Due giovanissime accettano uno scatto poi ci ripensano, «cancelli tutto di fronte a noi?».

Meno diffidenti i ventenni che escono dalla preghiera nella grande moschea di Imola, in un capannone della periferia industriale. Una sala bella e spaziosa, al piano superiore c’è posto per le donne (e i neonati). «Sono nato qui, quando sei piccolo scegli la cultura italiana, poi crescendo le discriminazioni aumentano e allora torni a quella dei padri – ragiona Bouabd Anas, 21 anni –. Questo Paese non è ancora pronto per le seconde generazioni». Adnan Sabir, coetaneo: «Mi sento fiero di essere musulmano e italiano. Però questo non è accettato». Ma se vi sentite rifiutati, perché rimanete? Due confessano di sognare il nord, Germania o Canada, «anche perché qui non c’è lavoro». Ma Adnan scatta: «Che domanda è? Io sono a casa mia!».

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