Cesena, 25 marzo 2011 - Il corpo inchiodato su una sedia a rotelle da 40 anni. In questi giorni cade l’anniversario di quel pomeriggio di inizio primavera quando un virus fulminante le paralizzò quasi completamente gli arti, condannandola a un vita di non autosufficienza. Una data che in molti preferirebbero dimenticare, non Liviana Siroli, 58enne cesenate molto nota in città, che domani ha invitato alla parrocchia dell’Osservanza dalle 15 in poi, amici e conoscenti per ripercorrere gli anni in cui la malattia le ha fatto sì perdere tante occasioni, ma le ha portato la consapevolezza che, con l’aiuto della fede, la forza della vita può sovrastare ogni sofferenza.

Aveva già ricordato il 25° anniversario e ora è la volta del 40°.
«L’idea è nata in seguito alle polemiche della puntata di ‘Vieni via con me’ dove non è stata data voce a chi aveva fatto una scelta diversa dai familiari di Eluana. Di queste persone ne conosco tante, soprattuto fra i miei compagni di viaggio, gli amici del Centro volontari della sofferenza: in comune abbiamo scelto di vivere pienamente la nostra vita nonostante la malattia e le difficoltà>>

Qual è il messaggio che vuole dare con questo incontro?
«Che tutto è prezioso e nulla va perduto. Bisogna avere il coraggio di guardare oltre le nostre ferite e avere l’umiltà di lasciare a Dio il giudizio finale».

Come è avvenuta l’accettazione della sua condizione?
«L’incontro con il Cvs, la fede e la consapevolezza della vicinanza di Cristo mi hanno fatto riemergere dal baratro in cui mi aveva gettata la malattia. E’ stato un percorso molo lungo. Nei primi dieci anni mi sono chiesta spesso il perchè di quanto mi era accaduto. Ho capito che la mia vita aveva un valore superiore a quello della sofferenza».

Ricorda il giorno in cui si ammalò?
«Non dimenticherò mai quel 24 marzo del ‘71: ero una studentessa di ragioneria di 18 anni. Mentre stavo studiando all’improvviso sentì fitte fortissime alla schiena e in breve tempo mi si paralizzarono gli arti. Iniziò così il mio calvario. La sera fui ricoverata al Bufalini dove rimasi per nove mesi. All’epoca la medicina non aveva i mezzi per curarmi da quel virus che nello stesso periodo colpì in città altre due donne. A Bologna, dove feci la riabilitazione, i medici mi dissero che non potevano fare più niente per me».

Come riuscì a superare quel momento terribile?
«Gli amici e alcuni religiosi mi spronarono a riprendere in mano la mia vita. Padre Guglielmo Gattiani mi convinse a tornare a scuola, fu grazie a lui e a don Primo Brighi che mi accompagnava in classe due volte la settimana, che riuscì a diplomarmi. In seguito, grazie a padre Giorgio Colombini iniziai a dattilografare le tesi di laurea: un lavoro che mi faceva stare a contatto con i giovani e che mi ha dato tante soddisfazioni, nonostante il faticoso l’approccio con la macchina per scrivere».

Che ricordo ha dell’esperienza in consiglio comunale dal ‘90 al ‘95?
«Devo tutto a Giobbe Gentili che mi diede piena fiducia. Come indipendente nelle fila della Dc rappresentavo il mondo del volontariato e mi feci portavoce dei bisogni dei portatori di handicap. Fu grazie al mio impegno che fu installato l’ascensore nella facoltà di Psicologia».

La battaglia contro le barriere architettoniche è sempre stata un suo chiodo fisso.
«Nel ‘98 con l’associazione Paraplegici abbiamo mappato per la prima volta la città in base all’accessibilità degli edifici. Con il Comune c’è collaborazione ma siamo ancora insoddisfatti. Vorrei lanciare un appello al preside della facoltà di Architettura: vogliamo collaborare affinchè venga approfondita maggiormente questa tematica all’università».

La sua ‘creatura’ però è il Centro volontari della sofferenza.
«Per il suo fondatore, monsignor Luigi Novarese, il malato deve passare da ‘oggetto di carità’ a ‘soggetto di azione’, diventare responsabile della propria vita. Vivere in una condizione di non autosufficienza è molto difficile, si è facile preda dello sconforto, per questo è importante non pensare solo a se stessi ma inserirsi nella Chiesa e nella società. Con il Cvs cerchiamo di fare questo».

L’Italia è un paese per disabili? «Mentre la società fatica ad accettarli, loro si sono resi protagonisti del miglioramento dei servizi e della conquista dei diritti, che però sono a rischio. Oggi è impossibile vivere con la pensione degli invalidi civili di 250 euro mensili e l’ultima finanziaria ha addirittura azzerato il fondo di non autosufficienza per il 2011».