Il male minore

QUANDO, nel 2006, gli italiani furono chiamati a esprimersi sulla riforma Calderoli, criticammo aspramente il centrosinistra: scegliendo di cavalcare il fronte del No al referendum, negava in radice la propria identità riformista e si assumeva la responsabilità di bloccare quello snellimento delle istituzioni e del processo decisionale attorno ai quali la politica dibatteva senza costrutto già da un trentennio. Parole al vento. Parole che ci sentiamo di ripetere oggi a parti invertite. Proviamo infatti una sgradevole sensazione di straniamento nel vedere Silvio Berlusconi e i suoi alleati annunciare la propria opposizione alla riforma Boschi in compagnia di grillini, “Fatto quotidiano” e sinistra estrema, utilizzando peraltro gli stessi argomenti di chi si oppose un decennio or sono alla riforma Calderoli: il rischio di «regime», la «deriva autoritaria», l’«attentato alla Costituzione».

VALGONO oggi per la norme varate dal centrosinistra gli stessi ragionamenti che valevano dieci anni fa per la norme varate dal centrodestra. La riforma non è perfetta, in alcune sue parti (la composizione del nuovo Senato, ad esempio) è confusa e contraddittoria, ma disegna un sistema istituzionale comunque migliore di quello attuale. È dunque il male minore. Qualora il referendum di ottobre venga vinto, sarà possibile correggere gli errori. In caso di sconfitta tutto resterebbe invece com’è. Fu così che nel 2006 sia Berlusconi sia Fini difesero (assai blandamente, va detto) la riforma che portava il nome del leghista Roberto Calderoli: la Costituzione va ammodernata, dissero, «se vince il Sì si riparte dal testo della riforma, se vince il No non si farà nulla per almeno 10 anni». Mai previsione fu più azzeccata. È infatti trascorso esattamente un decennio da allora, e rieccoci alle prese con un referendum confermativo. Ma a parti invertite. Al netto di quei costituzionalisti che considerano sacra e immodificabile la Carta fondamentale dello Stato, le ragioni del No sono eminentemente politiche e, come è accaduto nelle scorse settimane con le trivelle petrolifere, prescindono spesso dal merito del referendum. L’obiettivo del variegato fronte del No è provocare la caduta del governo Renzi. Obiettivo legittimo, s’intende. Anche perché è stato lo stesso Renzi, che ieri nella sua Firenze ha avviato la campagna di ottobre, a politicizzare il referendum istituzionale legando al responso di quelle urne la propria permanenza a palazzo Chigi. Tuttavia, non sempre il fine giustifica i mezzi. È legittimo, anzi, è doveroso, che le opposizioni cerchino come possono di rovesciare il governo in carica. Ma non a costo di smentire la propria storia; non a costo di smarrire la propria identità. Assistiamo in questi giorni al faticoso tentativo del centrodestra di trovare un punto di equilibrio, presupposto di un rilancio. Non crediamo che a ciò giovi associarsi alla retorica di chi considera che «la Costituzione più bella del mondo» non debba essere toccata. Solo la bussola strategica del realismo e del riformismo può indicare una via nuova al centrodestra, rinunciandovi per esigenze tattiche si corre il rischio di perdersi definitivamente.