Tre indizi, una prova

Roma, 29 ottobre 2016 - Un cavalcavia crolla ieri sera su una statale tra Milano e Lecco. Un autotreno precipita sulle automobili che passano sotto il ponte. Un morto, feriti. Ordinaria amministrazione? Adesso andate su internet e alla voce ‘ponte crollato’ vedrete Bari, Licata, Cosenza… Tutta ordinaria amministrazione? Tre indizi fanno una prova, si diceva una volta. Anche se nel caso del cavalcavia di ieri sera più che di cedimento strutturale si deve parlare di una macroscopica negligenza perché da quattro anni quel ponte era pericolante. Quale prova? Gli italiani, celebri nel mondo per fare (al meglio) le opere pubbliche più ardite, in casa loro non si comportano tanto bene. Il pensiero corre ai paesi tra le Marche e l’Umbria colpiti dal terremoto dell’altro ieri. Piccoli gioielli di una Italia minore e meravigliosa, sconosciuta alla maggioranza degli stessi italiani, ma nucleo essenziale della bellezza diffusa che ci rende unici al mondo. Dopo il sisma del 1997 erano stati stanziati e spesi (con molta lentezza) tanti e tanti milioni.

Centri storici restaurati, si immagina rispettando tutte le norme antisismiche possibili. C’era stato un terremoto, diamine. La zona è sismica da sempre, diamine. La stessa cosa è accaduta nei centri del Lazio e delle Marche colpiti dal terremoto del 24 agosto. Quasi 300 morti. E anche a L’Aquila, zona sismica al massimo grado, 309 morti. A che gioco giochiamo? Renzi ha tutte le ragioni del mondo a sostenere con l’Europa che la messa in sicurezza dell’Italia sismica è una emergenza, vista la frequenza di terremoti, frane, alluvioni, smottamenti dovuti anche alla scarsa cura del territorio. Ma di quale messa in sicurezza parliamo? Spendiamo miliardi di euro per arricchire imprese di incoscienti e talvolta di mascalzoni? Quali controlli si fanno su queste opere pubbliche? Questo sta diventando il vero problema. Forse se con la mano destra chiede soldi, con la sinistra il presidente del Consiglio deve ottenere onestà, rigore, chiarezza. Altrimenti non finiremo mai di piangere e di indignarci. Per poi piangere di nuovo.