Bologna - "Laddove c’è una società, lì c’è il diritto" affermavano sicuri gli antichi, senza peraltro spiegare se venga prima l’uovo o la gallina. Piuttosto che complicarsi la vita in ardite ricostruzioni, il legislatore ‘nostrano’ ha preferito definire una normativa chiara e articolata. Quantomeno in un ambito: la societas in questione è il condominio formato da più di dieci abitanti, e lo ius si chiama regolamento. Non importa quale di questi due frutti della volontà umana sia il primogenito, poiché sono contemplate entrambe le alternative possibili.


Normalmente è il costruttore a predisporre l’atto che contiene le regole della vita condominiale, il quale diviene vincolante per i primi acquirenti (e per quelli successivi) qualora sia espressamente richiamato nell’atto di acquisto. Nel caso, si parla di regolamento «contrattuale» o «esterno».

Tuttavia, non è detto che le norme della civile convivenza debbano per forza essere calate dall’alto. Possono anche essere i singoli condomini riuniti in assemblea a decidere del loro destino (regolamenti «assembleari» o «interni»), approvando un testo che abbia il favore della maggioranza degli intervenuti i cui voti rappresentino almeno la metà del valore dell’edificio. In questo senso la riforma entrata in vigore nel giugno scorso parla chiaro. Lo stesso fa il codice civile all’articolo 1138, con il quale disciplina il contenuto del regolamento: «Le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione».


Fatti salvi, ovviamente, i limiti di legge e i diritti di ognuno, la fantasia è libera di spaziare. A patto che — chiarisce la riforma varata con la legge 220 del 2012, recependo quanto stabilito in passato dalla Corte di Cassazione — non si vieti di possedere o detenere animali domestici. Per il vero, il regolamento contrattuale ha margini di manovra più ampi rispetto a quello assembleare, che deve limitarsi a regolare l’uso delle cose comuni, la ripartizione delle spese, la tutela del decoro e dell’edificio e l’amministrazione.

L’atto predisposto dal costruttore, infatti, può: attribuire a uno o più condomini l’uso esclusivo di determinate parti comuni; limitare il potere di rappresentanza in assemblea; consentire ai proprietari dei locali commerciali di non contribuire al mantenimento di beni e servizi non goduti; vietare cambiamenti dell’assetto architettonico dell’edificio; impedire la variazione della destinazione d’uso delle unità immobiliari. Anche per quanto appena detto, nel caso in questione la procedura di modifica richiede l’assenso dell’unanimità dei condomini.

Diversamente, qualora sussista un regolamento ‘interno’, l’assemblea potrà approvare variazioni con la maggioranza dei presenti, cui corrisponda almeno la metà del valore dell’edificio. Ciò che non muterà mai, invece, è l’animo degli uomini, sempre pronti a trovare l’inganno appena sfornata la legge. La riforma ha tenuto conto pure di questo, sostituendo — per chi sgarra — alla sanzione divenuta ormai simbolica di 100 lire, quella ben più prosaica di 200 euro; che diventano 800 in caso di recidiva.


Antonio Del Prete

 

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