Dodicenne morto sul campo di rugby, i genitori: «Elia era un bambino speciale,ora prega per noi dal cielo»

Tra dolore e fede: è solo il corpo che se n’è andato FOTO Il funerale FOTO Il ricordo dei compagni

Macerata: Elia Longarini, morto durante una partita di rugby

Macerata: Elia Longarini, morto durante una partita di rugby

Macerata, 24 febbraio 2015- Una settimana fa veniva a mancare improvvisamente per un malore Elia Longarini, 12 anni, sotto gli occhi dei compagni di rugby e dei genitori. Giorgio e Cristina, il babbo e la mamma, oggi raccontano quello che è successo e la loro fede. «Ne parliamo nella speranza che qualcuno possa trarre giovamento dalla nostra esperienza. Forse, le nostre parole possono essere d’aiuto a chi, come noi, sta soffrendo», dicono.

Qual è stato il primo pensiero quella domenica mattina sul campo da rugby?

«C’era la polizia, tantissima gente intorno, un caos totale – ricorda Giorgio -. Ma in quel momento ho subito pregato Dio che non mi facesse dubitare del suo amore. In tanti altri fatti della vita ho potuto vedere quanto Dio mi ha amato».

La città intera è rimasta colpita da quello che ha detto al funerale, cioè che fosse una festa. Può spiegare quello che voleva dire?

«La nostra carne e il nostro cuore si sono spezzati a metà. Ci manca un pezzo di noi, ci mancano 12 anni di vita insieme. Ci potremmo domandare perché doveva accadere proprio a un bambino. Ma è solo il corpo che se n’è andato, Elia vive in cielo. Ora, stiamo vedendo che, con questo fatto, tante altre cose si stanno risolvendo. Penso che, se qualcuno ha problemi, può andare a visitare Elia al cimitero, e chiedere l’intercessione a Dio tramite lui. È un angioletto in cielo che prega per noi».

Con quali parole avete saputo spiegare quanto successo agli altri due figli, Matteo ed Ester?

«Noi ci siamo sempre detti la verità, su tutto. Loro sanno che siamo chiamati al cielo, che non siamo abitanti di questa terra, ma solo di passaggio. Nel 2006 hanno già visto morire, ancora giovane, mio padre – racconta Giorgio – che, nonostante la sofferenza per la malattia, non si è mai lamentato. Avevano già visto cos’era la fede».

Come vivete quotidianamente la fede in famiglia?

«Facciamo le lodi ogni domenica mattina, una preghiera che diventa anche un momento per chiederci perdono l’un l’altro se durante la settimana ci siamo detti o fatti qualcosa di male. Come diceva Giovanni Paolo II, viviamo la nostra piccola “chiesa domestica”».

Come riuscite a trasmettere ai vostri figli valori così distanti da quelli prevalenti oggi?

«I valori che diamo loro non vengono da noi, ma da Dio. La fede ci è stata donata da bambini, siamo stati “chiamati” a far parte della Chiesa, intesa come un insieme di persone, più che come istituzione, e proprio dalle persone del cammino neocatecumenale, dai sacerdoti e dal vescovo ci è arrivato l’abbraccio più forte in un momento simile. Senza di loro, non so come avremmo fatto. Io e mia moglie facevamo entrambi parte di questo cammino di fede quando ci siamo conosciuti. Ci siamo sposati, e a settembre del 2002 sono nati Elia e Matteo, poi è venuta Ester».

Com’era Elia?

«Sensibile, e talmente speciale che non poteva restare quaggiù. Aiutava sempre la nonna in cucina, faceva i dolci, lavava i piatti. Quando vedeva un povero, era pronto a dargli qualcosa. Era spiritoso, mandava i selfie alla zia, mia sorella Emanuela – dice Giorgio – per scherzare su quanto fosse bello. Poi, come chiunque alla sua età, non era mai ubbidiente. Amava i giochi da tavolo, Risiko, Monopoli e Uno, con la nonna giocava a scala quaranta, e amava passare tempo con i fratelli. Era bravissimo con la tecnologia, a scuola aveva i suoi problemi, ma si impegnava tanto, cercando di dare sempre tutto se stesso. Era di una fisicità immediata nell’affetto, non aveva filtri, nel bene e nel male. Diceva in modo diretto quello che aveva dentro». «L’ultima volta che l’ho visto era venerdì sera – racconta la nonna, Alba – è uscito di casa e ha salutato, ma poi è tornato indietro e mi ha abbracciato dicendomi “Ti voglio bene”. Questo era Elia».