Giovedì 18 Aprile 2024

Albertazzi, l'odore della storia

Andrea Cangini

Andrea Cangini

Roma, 29 maggio 2016 - SONO passati più di vent’anni. Mi capitò per caso, a Roma, di incrociare i suoi passi e con la sfrontatezza dell’età gli domandai non perché fosse stato fascista (domanda sciocca: la maggioranza degli italiani lo fu), ma perché avesse scelto di esibire il proprio passato anziché tacerlo come fecero molti. Sul volto di Giorgio Albertazzi si aprì un sorriso colmo di vita. «È solo una questione di olfatto – rispose –. Purtroppo, non sopporto l’odore del nuovo. È innaturale, sa di falso». Nel dopoguerra, gli italiani hanno cancellato l’odore del proprio passato. Perdemmo la guerra e ci atteggiammo a vincitori. Ci coricammo fascisti e ci svegliammo antifascisti. Ci dilaniammo in un conflitto civile, ma per quasi cinquant’anni ne negammo persino il concetto. L’odore del nuovo piaceva in realtà a tutti: sapeva di falso, ma consentì alla nazione di non fare i conti con i propri afrori, con la propria Storia, con la propria identità. 

NELL’ITALIA patria del trasformismo, nell’Italia dei furbi e dei voltagabbana c’è stato però anche chi ha avuto il coraggio di non nascondersi e quel coraggio esibito da pochi ha riscattato l’onore di molti. Vecchia storia sempre attuale. La politica è infatti ricca di rimozioni: ex comunisti mai stati comunisti, ex craxiani spacciati per lombardiani, ex berlusconiani rinati, ex liberisti divenuti statalisti, ex secessionisti convertiti al Verbo nazionalista... Molti si sono fatti renziani, ma solo un po’. Quanto basta; quel che serve. Naturalmente pronti, all’occorrenza, ad appendere il corpo del Capo a un lampione indossando con passione la blusa degli antirenziani. L’opportunismo è un istinto primario, ha a che fare con l’istinto di sopravvivenza. Ma in noi italiani, eternamente pronti come siamo a correre in soccorso del vincitore, quell’istinto è più sviluppato che in altri. Perciò, anche a costo di appiattire il personaggio su un passato che non ha nulla a che vedere con l’enorme talento artistico per cui oggi lo piangiamo, giova qui ricordare che Giorgio Albertazzi ebbe l’ardire di non nascondersi.

IN UN’EPOCA a-morale, che ha proscritto il concetto stesso di onore, che ha rubricato la coerenza a sinonimo di ingenuità e ha fatto del successo l’unico metro di giudizio, è utile infatti ricordare l’anomalia di un Giorgio Albertazzi. Che fu fascista e lo disse. E che, per coerenza, scelse di arruolarsi nella Repubblica sociale italiana pur sapendo che la sconfitta sarebbe stata l’unica certezza di un futuro quantomai incerto. Destra o sinistra, fascismo o comunismo non c’entrano. C’entra invece la dignità dell’Uomo. C’entra l’esempio. E non c’è esempio migliore di quello rappresentato da chi sceglie di infilare la propria vita nel vicolo cieco di una causa persa in partenza. «La sconfitta è il blasone dell’anima ben nata», recita un antico codice cavalleresco. Non profuma di nuovo come un mobile usa e getta di Ikea, certo, ma come un pezzo d’antiquariato ha l’odore acre della Storia. La nostra Storia, nel bene come nel male.