Le agendine del bluff

BENVENUTI nella Repubblica del ricatto e del bluff, verrebbe da dire a coloro che si meravigliano degli strascichi polemici delle vicende capitoline. Chi scrive non simpatizza per i linciaggi politici, che nella peggiore tradizione italica vedono spesso gli ex sodali dell’accusato in prima fila nello scaglio delle pietre. Né tantomeno si stupisce per l’amaro sfogo di Ignazio Marino rivolto verso i vertici del Pd. Che esista o meno, la fantomatica agenda del sindaco dimissionario non rappresenterebbe certo una novità in una storia repubblicana nella quale il ricatto - assortito dalla pubblica minaccia di fantomatiche rivelazioni (quasi mai tradotte in pratica) - è stato spesso uno strumento di contesa politica. Soprattutto nei momenti di maggiore fragilità delle istituzioni e di debolezza dei partiti. L’episodio più celebre è forse il "poker d’assi" di cui avrebbe disposto Bettino Craxi nell’estate del 1992, ai tempi di Tangentopoli. Fu il suo compagno di partito, Rino Formica, a riferire sibillino ai giornalisti, al termine di una riunione della direzione del PSI (preceduta da una serie di corsivi anonimi sul quotidiano socialista l’"Avanti!"), che il leader socialista disponeva di un poker d’assi, se non di una scala reale, che avrebbe mandato in rovina il pool di Milano, da Borrelli a Di Pietro. 

CRAXI in realtà non aveva in mano nulla, se non, di lì a poco, una serie nutrita di avvisi di garanzia. La minaccia era un bluff. Così come, vent’anni dopo, nel novembre 2013, alla vigilia del voto per la sua decadenza da senatore, bluffava Silvio Berlusconi quando avvertì pubblicamente di avere in serbo un "colpo segreto" contro Matteo Renzi, di cui si sono perse le tracce.

L’ULTIMO scorcio di Seconda Repubblica ha fatto registrare un’impennata della pratica, favorita dalle crescenti tensioni antipolitiche che hanno ulteriormente incrinato la legittimità dei partiti. Se le vicende romane hanno da qualche mese portato alla ribalta mediatica le faide interne al Pd, la minaccia di rivelazioni compromettenti è in realtà una consuetudine assolutamente bipartisan. Basti pensare, sul fronte opposto, agli avvertimenti di Albertini a Formigoni dopo che quest’ultimo lo aveva abbandonato per sostenere Maroni nelle ultime regionali lombarde, agli assi nella manica minacciati da Nicola Cosentino per convincere Berlusconi a ricandidarlo, passando per le rivelazioni sui ‘denari’ della Lega Nord annunciate da Oscar Morando, ex autista di Umberto Bossi, all’indomani del licenziamento. Minacce peraltro mai tradotte in pratica.

CONSAPEVOLE di vivere in un contesto sempre più personalizzato e dominato dall’immagine, il politico sull’orlo del baratro si illude di avere ancora nel potere di ricatto mediatico un’arma potente per mettere alle strette i propri avversari (interni o esterni al partito) ed evitare, o quantomeno ritardare, la propria caduta. Ma si tratta di un’arma il più delle volte spuntata, anzitutto perché chi minaccia di servirsene non dispone più della legittimità necessaria per ingaggiare una battaglia di comunicazione. "Non basta avere ragione, bisogna avere anche qualcuno che te la dia", era solito dire Giulio Andreotti.

IN POLITICA d’altronde non esistono colpi segreti. E quelli annunciati si risolvono il più delle volte in bluff. I partiti e la classe politica hanno goduto per troppo tempo di privilegi di sapore feudale per meravigliarsi oggi di essere sanzionati attraverso la più moderna e televisiva declinazione della classica punizione feudale: la gogna mediatica.