Pinocchio, così universale che si traduce anche in dialetto metaurense

Il professor Sanzio Balducci lo ha riscritto nella lingua di Montemontanaro, piccola comunità di sole cento anime. Ad illustrarlo un grande autore: Bruno d’Arcevia

Da sinistra, Bruno d’Arcevia (foto Solidea Vitali Rosati), la copertina del libro e il professor Sanzio Balducci

Da sinistra, Bruno d’Arcevia (foto Solidea Vitali Rosati), la copertina del libro e il professor Sanzio Balducci

Fano, (Pesaro e Urbino), 6 marzo 2015 - Sanzio Balducci, nativo di Colbordolo (non lontano da Urbino) ma residente a Fossombrone, fino a due anni fa ha insegnato Linguistica italiana all’Università di Urbino, dove attualmente insegna Storia della lingua e Dialettologia italiana nel Corso di Lettere e Linguistica italiana a Scienze della formazione.

Il dialetto è la sua grande passione e per questo ha pubblicato una versione del tutto particolare delle “Avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi.

e Pinocchio è un monumento della lingua italiana ricca di toscanismi, Balducci l’ha tradotto nel dialetto di Montemontanaro, un piccolo castello del 1200, che costituiva uno dei baluardi della linea fortificata del Ducato di Urbino, abitato, sì e no, da un centinaio di persone.

Professor Balducci, più che singolare questa è un’operazione unica, considerato che questo dialetto lo parleranno non più di 300 persone, tra paesani e contadini. Perché proprio questo dialetto?

«Per un motivo affettivo, visto che vivo da quelle parti. E pensare, poi, che io non ho mai parlato il dialetto, mia madre da piccolo me lo ha sempre proibito e oggi quando ci provo, il più delle volte, faccio ridere chi mi ascolta. Il dialetto l’ho iniziato a studiare all’università».

Com’è nata, allora questa impresa?

«Finora mi ero sempre dilettato di fare traduzione di testi letterari, che so, il primo canto dell’“Inferno”, l’“Infinito” di Leopardi, qualche pagina dei “Promessi Sposi”, senza però mai pubblicare niente, solo per qualche recita. Anche con “Pinocchio” avevo tradotto un capitolo, poi ho deciso di proseguire con tutto il testo».

C’è una motivazione culturale precisa?

«Certo. Ho voluto mettere alla prova il dialetto su un’opera importante e famosa come “Pinocchio”, tradotta in tutte le lingue del mondo. Un dialetto ha la possibilità di esprimersi compiutamente in tutte le sue strutture grammaticali e sintattiche solo di fronte ad un’opera completa, nella quale c’è una frequenza, una ripetizione del lessico e della struttura sintattica. La scelta è caduta su questo piccolo dialetto insignificante, eppure da tramandare, per dimostrare che l’impresa è possibile. Certo, in questa sfida il dialetto di Montemontanaro è stato messo a dura prova perché mancano vocaboli appropriati che mi sono dovuto inventare».

Alla fine cosa ha scoperto?

«Che un dialetto, anche il più umile, è capace di esprimere tutto, sentimenti compresi, in quanto è un linguaggio completo dal punto di vista della sua struttura. È uno strumento linguistico a tutti gli effetti, capace di comunicare sentimenti, emozioni, ogni aspetto della nostra vita. Così come l’italiano prevede parole e concetti da altre lingue, così il dialetto le prevede in genere dall’italiano, adattandoli al suo sistema fonologico».

Il dialetto va rivalutato?

«Dal 1500 circa il dialetto è stato riservato alla comunicazione comica, legato cioè alla commedia, e così è stato identificato nei secoli. Con Pinocchio ho voluto dimostrare che il dialetto può essere usato in tutte le circostanze».

Come è nata la collaborazione con Bruno d’Arcevia?

«Nasce da lontano, da quando realizzammo le “Battaglie del Metauro e di Sentino”, illustrate con sue acqueforti prodotte dalla Stamperia GF di Urbino».

Il volume “Le aventur de Pinocchi” (edizioni Gema di Camerata Picena) sarà presentato a Fano sabato 7 marzo 2015 alle 20,30 al Pit Stop Ristorante, in una iniziativa curata da Carlo Bruscia e che coinvolge lo chef Raul Ballarini, uno dei massimi esperti di cucina italiana. Quella che - per intenderci - non ha bisogno di essere “tradotta” in tante lingue.