Nigeriano morto a Fermo, la lettera di Mancini a un amico

Il 39enne, in carcere per la morte di Emmanuel Chidi Namdi, si apre scrivendo a un amico: "Sono dimagrito diversi chili..."

Amedeo Mancini (Foto Zeppilli)

Amedeo Mancini (Foto Zeppilli)

Fermo, 9 settembre 2016 - Sono trascorsi due mesi da quando Amedeo Mancini, il 39enne accusato della morte del rifugiato politico nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, è entrato in carcere senza più uscirne. Mancini racconta la sua prigione ad un amico, al quale ha inviato una lettera che ripercorre questi 60 giorni vissuti a Marino del Tronto.

«Caro amico mio – scrive il 39enne fermano – il carcere è duro e sono dimagrito di diversi chili. Fortunatamente, il personale mi tratta bene ed ho istaurato un buon rapporto anche con i miei compagni di cella. Nonostante sia trascorso tutto questo tempo, sono fiducioso cha la verità verrà fuori e che i giudici comprenderanno le mie intenzioni. Tu mi conosci, mi sono solo difeso, non sono un assassino».

Mancini poi ripensa a quel maledetto pomeriggio di luglio: «Stavo andando al mare e non pensavo lontanamente che la mia vita sarebbe stata stravolta da una parola di troppo. Se solo potessi tornare indietro, piuttosto mi morderei labbra e lingua pur di non pronunciare quella stupida frase». 

Il 39enne fermano nella sua lettera parla anche di Emmanuel: «Ci penso e mi rendo conto che non c’è più. Questo è terribile. Ma non mi ha lasciato via di uscita: lui e sua moglie non mi hanno dato tregua. Ho cercato in tutti modi di evitare lo scontro: ho tentato di salire sull’autobus, ma mi hanno sbarrato la strada; poi mi sono rifugiato sopra una panchina, quindi sono scappato verso via Veneto. Loro però non mi mollavano, non mi davano tregua. Quando lui mi ha colpito con il segnale stradale ho visto la morte in faccia».

Mancini poi parla della sua famiglia e degli amici, che gli hanno dato la forza di resistere: «Lo sai, non ho più la mamma e il babbo, ma voi siete stata la mia famiglia allargata. Mia sorella, mio fratello, i miei zii, sono venuti a trovarmi e non mi hanno mai fatto sentire solo: per questo li ringrazierò tutta la vita».

Il pensiero del 39enne fermano va poi al terremoto che ha colpito Marche, Lazio e Umbria e alle vittime: «Vivere l’esperienza del terremoto in carcere è stato terribile. Ho avuto tanta paura, così come gli altri detenuti. E’ brutto sentirsi come dei topi in trappola, ma, rispetto alle povere vittime, questo è nulla». La lettera finisce con parole di speranza: «Mi auguro che questo incubo finisca, così da poterti riabbracciare presto, insieme a tutte le persone a me care».