Nigeriano ucciso a Fermo, l’ultrà si difende. “In cella con dei neri, siamo amici”

Mancini ribadisce: “Non sono razzista, lascerò tutto alla vedova”

Amedeo Mancini  col calciatore senegalese della Fermana Sene Papa Moustapha

Amedeo Mancini col calciatore senegalese della Fermana Sene Papa Moustapha

Marino del Tronto (Ascoli Piceno), 24 luglio 2016 - Jeans e maglietta di cotone, sguardo un po’ frastornato, quasi rassegnato. Intorno ad Amedeo Mancini, l’ultrà della Fermana calcio che nella tragica e controversa lite di Fermo ha sferrato un cazzotto al profugo nigeriano Emmanuel (poi morto per la ferita alla testa susseguente alla caduta), ci sono la direttrice del carcere di massima sicurezza di Ascoli, Lucia di Feliciantonio, e altri quattro detenuti con cui condivide la cella speciale. Nel cortiletto interno dell’istituto penitenziario dove soggiornarono anche Totò Riina al 41 bis e Alì Agca, l’attentatore del Papa, ci sono solo loro, Mancini e i compagni, perché vengono tenuti divisi dagli altri detenuti a vario titolo per motivi di sicurezza.

L’ultrà non si dà pace, scuote la testa. E affida il suo sfogo al senatore Carlo Giovanardi che lo incontra durante una visita al carcere. Il senatore per primo avanzò dubbi sulla versione dell’aggressione a sfondo razzista. Per questo, prima ancora che sei testimoni contribuissero a una diversa lettura dei fatti, è stato insultato anche a Palazzo Madama da una senatrice del Pd, mentre la presidente di turno, Linda Lanzillotta, gli toglieva la parola. La voce è ferma, ma traspare ugualmente un senso di disperazione e di smarrimento.

«Sono stato stritolato da un vicenda più grande di me – dice Mancini –, forse ho un carattere irruento, questo sì». Si guarda intorno, incrocia lo sguardo dei compagni e della direttrice del carcere. «Sono distrutto e soprattutto pentito di ciò che è successo. La vedova di Emmanuel? Sono consapevole di aver tolto la vita al marito e averla rovinata a lei. Ma anche la mia vita è rovinata. Sono addolorato».

Negli occhi di Amedeo Mancini è rimasto poco o nulla dello sguardo spavaldo che appare nelle fotografie pubblicate a raffica sui giornali nelle settimane scorse. Parla con voce pacata, quasi volesse rivolgersi a Chinyery, la vedova del profugo nigeriano che dopo sei testimonianze affiorate a bocce ferme e il polverone mediatico-politico ha infine cambiato versione ammettendo: «Fu Emmanuel a colpire per primo Mancini, ma poco prima lui ci aveva offesi e insultati».

L’ultrà non si dà pace: «A lei chiedo perdono e quello che posso fare è mettere a disposizione tutti i mie beni per andarle incontro. Lo avevo già fatto sapere attraverso il mio avvocato e ora lo voglio ribadire con forza». Non pronuncia mai il nome di don Vinicio Albanesi, il sacerdote della comunità di Capodarco, che ospitava Emmanuel e Chinyery e che con le prime accuse di aggressione razzista scatenò la valanga di indignazione a senso unico di politici e parlamentari, prima ancora che la dinamica si chiarisse con più trasparenza. Mancini si tormenta e cerca di dimostrare durante la conversazione che a lui pesa soprattutto l’etichetta di razzista. «Guardi qui in cella, con me ci sono due ragazzi di colore con cui ho ottimi rapporti. Nessuno screzio, giochiamo a pallone insieme nel campo del carcere per passare il tempo. E poi avrà visto che i giornali hanno pubblicato la mia foto con un giocatore di colore della Fermana. Lo ripeto, non sono razzista e convengo che al mondo nel bene e nel male siamo tutti fratelli».

A breve il Tribunale del riesame prenderà in considerazione la richiesta di scarcerazione presentata dal legale di Mancini. Lui lo sa, spera di uscire, ma non azzarda previsioni. «Faccio di tutto per rimanere sereno, anche se è difficile. Sono in attesa di giudizio e lo so. Spero solo di venire giudicato per ciò che è successo veramente e per come sono andate le cose durante quella maledetta giornata, non per tutto ciò che è stato detto e scritto». La conversazione, tre quarti d’ora in tutto, finisce qui. Questa brutta storia nella sua drammatica essenzialità rimane ciò che è, mentre il polverone del razzismo che ha diviso l’Italia sullo sfondo di quell’insulto assurdo dell’ultrà («Andate via scimmie africane») e di una scazzottata fatale si sta affievolendo. Nell’imbarazzo silenzioso di chi, come la presidente della Camera Laura Boldrini, ha seguito senza verifiche il sacerdote di Capodarco sulla strada scivolosa e sbagliata del caso razziale.