Omicidio Tartari, la richiesta del pm: "Ergastolo per gli assassini"

Le richieste del pm: «Abbandonato nel casolare vivo, da solo e per sempre»

Il pubblico ministero Ciro Alberto Savino

Il pubblico ministero Ciro Alberto Savino

Ferrara, 28 gennaio 2017 - Due ore e venti di rabbia e commozione per quell’uomo di 73 anni «abbandonato vivo, solo e per sempre» nel tugurio dimenticato da Dio, «senza speranza di essere ritrovato». «Aggredito, incaprettato, imbavagliato, sanguinante». Una «crudeltà, una spietatezza mai viste». Ed ecco allora la scure su Patrick Ruszo, 20 anni slovacco, e il romeno Costantin Fiti (23), rei di aver ucciso il 9 settembre 2015 ad Aguscello Pierluigi Tartari: ergastolo con isolamento diurno per tre anni, interdizione perpetua dai pubblici uffici e decadimento della potestà genitoriale. Nessuno sconto dal pm Ciro Alberto Savino che non ha voluto dimenticare il dolore della famiglia Tartari, di Rita e Marco anche ieri in aula: «Vi ringrazio per la dignità che avete dimostrato durante le udienze. Portate la croce».

«Era vivo». Una requisitoria sentitissima di quello che è stato un «procedimento sentitissimo dall’opinione pubblica, dalla stampa, dagli organi giudiziari». Parte dal pomeriggio del 9 settembre, il magistrato. «Quando il povero Tartari sta facendo giardinaggio con l’amico Bruno e si accorda per cenare allo Sherwod di Canaro». Una pizza che «conclude alle 19.45-20», mentre quattro ore dopo, «alle 23.30, è già stato abbandonato nel casolare di Fondo Reno. Da vivo».

Parla di omicidio «efferato, violentissimo, crudele», perché Tartari «ha almeno tre fratture al costato per i colpi ricevuti con il tubo usato da Ivan Pajdek (il capo banda condannato in abbreviato a 30 anni, ndr), col palanchino di Fiti e con la mazza da 10 chili di Ruszo». Anche il malleolo è rotto, viene incaprettato. «Ha fascette che gli legano le mani, le caviglie, le ginocchia, una spalla uscita». Per non farlo gridare «carta e straccio in bocca», con giri di nastro adesivo («una pallottola di nastro») sul naso e una maglia sugli occhi. «Legato come un salame, a mani nude non si sarebbe riusciti a liberarlo».

I tre. Nel tugurio-prigione non avrà nemmeno la possibilità di chiedere aiuto. «È morto – chiosa il pm – dopo 5-8 ore dall’ultimo pasto. E per almeno tre è rimasto con la frattura del malleolo. Possiamo solo immaginare il dolore che ha provato nel casolare».

Passa in rassegna i tre della banda, a partire da Pajdek, «che ha collaborato, ha fornito versioni riscontrate dagli inquirenti riferendo che tutti hanno picchiato». E’ la volta di Fiti, «un ladro di biciclette diventato assassino», che ancora oggi si dichiara innocente. Un ragazzo «molto violento che picchia la compagna», e con le taniche di benzina trovate nel casolare «voleva bruciare Tartari». Infine Ruszo, il più giovane, il figlio della badante dirimpettaia di Pierluigi e che Pajdek ha definito la basista.

Il ragazzino in fuga preso a Padova, che condusse la polizia a Fondo Reno 17 giorni dopo la scomparsa del pensionato. Ma non beneficerà di sconti, come sempre sussurrato in fase di indagini («ha creato uno sgambetto all’impostazione d’accusa»). «Durante il processo – continua Savino – non ha collaborato decidendo di non farsi interrogare. Le sue dichiarazioni oggi non mi servono a nulla». Tartari, conclude amaramente, «se non fosse morto per asfissia, lo sarebbe per inedia». Abbandonato solo, per sempre, all’inferno.