I volti del jazz negli scatti di Cifarelli

Al Torrione fino al 28 aprile la mostra fotografica ‘Le strade del jazz’. «Mi piace ritrarre i musicisti a concerto finito, in un momento di relax, o con lo strumento già in valigia»

Roberto Cifarelli espone i suoi scatti al Torrione

Roberto Cifarelli espone i suoi scatti al Torrione

Ferrara, 6 febbraio 2017 - Chilometri macinati giorno dopo giorno, festival dopo festival, concerto dopo concerto. Chilometri fatti soprattutto di notte, con compagna di viaggio la macchina fotografica, il tutto per alimentare una malattia chiamata jazz. La definisce proprio così Roberto Cifarelli, ‘una malattia’, che colpisce tutti quelli che ascoltano il jazz. Ne parla con amore, tra un sospiro di accettazione e una risata divertita. Fotografo jazz tra i più apprezzati a livello nazionale e non solo, ha inaugurato al Jazz Club ‘Le strade del jazz’, che coglie alcuni dei più grandi musicisti a fine concerto. Gli scatti di Roberto Cifarelli, a cura di Eleonora Sole Travagli, saranno fruibili fino al 28 aprile nelle serate di programmazione del Jazz Club.

Jazzisti stanchi, felici, assonnati, rilassati. Come nasce l’idea di immortalarli fuori dal palco?

«Mi piace ritrarre i musicisti a concerto finito, dopo averci scambiato qualche chiacchiera, in un momento di relax, fuori dal locale per strada o con lo strumento già chiuso in valigia. Ormai il bello è che spesso sono loro a chiedermi una foto, si crea un bel rapporto di fiducia».

Come è diventato fotografo jazz?

«Per passione. Nasco prima come ascoltatore di jazz, poi come tutti i fotografi appassionati del genere scattavo delle foto ai concerti, come ricordo. Dal 2003 è diventato un mestiere, che mi fa macinare molti chilometri in giro per il mondo tra club e festival. Ma tuttora ho anche un altro lavoro».

E qual è?

«Faccio anche il progettista di motori, per avere la possibilità di scegliere quello che voglio seguire come fotografo. E in fondo, questi due mestieri spesso si influenzano: ogni mio progetto fotografico ha una sua progettazione ben precisa».

Segue il mondo jazz da anni, l’ha visto cambiare?

«Sembra diventata una musica d’élite, quando invece le sue origini sono diverse, un tempo il jazz addirittura si ballava. Adesso sembra che gruppi pop, quando vogliono darsi un tono, preparino un progetto jazz. D’altra parte, dai locali di nicchia si è passati a grandi festival da sei-settemila persone. Non è detto che sia sbagliato, se affeziona al jazz nuove persone».

Da ‘malato’ di jazz, com’è esporre al Jazz Club?

«Un onore e un piacere. Lo frequento da anni ed è tra i posti che più amo, perché al Torrione ancora si respira quell’aria da jazz club vero, dove il titolare è un vero appassionato e si chiacchiera di jazz dopo il concerto e lo frequentano i musicisti del luogo».

C’è una storia che più di altre l’ha colpita?

«Quella di Gary Bartz, anche se ogni foto ha la sua bella storia dietro. Gli feci notare come fosse molto elegante e curato: il cappello, la sciarpa, il portamento, tutto. Mi incuriosì, visto che molti jazzisti sono spesso trasandati. Lui mi svelò il suo segreto: tutto merito della moglie».

Spesso le foto di jazz sono in bianco e nero. Le sue sono colorate...

«Tutti cercano di rimanere nella tradizione, che ha un suo fascino. Una volta si usava il b/n perché si sviluppava in casa e costava meno. Con il digitale questo limite viene meno. E poi io ho una vera passione per il colore: basta guardare le mie camicie, amo quelle hawaiane. La prima risale a quando avevo 13 anni, di Moschino. Da allora, come il jazz, non ho più smesso».

Anja Rossi