L'ex internato: "Io, in un campo di lavoro. Eppure non dovevo andare in guerra"

Intervista a Fabbiano Sivieri, 94 anni, insignito della medaglia d'onore del Capo dello Stato

Fabbiano Sivieri, ritratto con Lara che lo assiste

Fabbiano Sivieri, ritratto con Lara che lo assiste

Ferrara, 27 gennaio 2015 - Oggi, giornata clou delle manifestazioni del Giorno della Memoria, alle 10, alla Sala Estense, la Prefettura e l’Istituto di Storia Contemporanea hanno organizzato l’incontro ‘Gli internati militari italiani 1943-1945’ con l’intervento di Michele Montano, internato militare e prigioniero politico. Il programma prevede anche la cerimonia solenne di consegna - alla presenza delle autorità civili, militari e religiose - delle medaglie d’onore del Presidente della Repubblica a ex internati ferraresi militari e civili nei campi nazisti. Sono già 327 le medaglie consegnate dal 2009, cui si devono aggiungere le 6 che oggi andranno a Fabbiano Sivieri (che sarà presente) e alla memoria di Mario Balboni, Luigi Benatti, Giuseppe Buzzoni, Vittore Felice Finotelli, Fortunato Lanzoni. Le celebrazioni proseguiranno alle 15, nel cortile della caserma Bevilacqua (corso Ercole I d’Este) con la cerimonia di deposizione di una corona al cippo che ricorda i cittadini ebrei ferraresi reclusi nella caserma stessa nel gennaio 1944.

Fabbiano Sivieri, 94 anni il prossimo 4 febbraio, era poco più che ventenne quando fu arruolato e mandato a Fiume dove sarebbe poi stato catturato dai tedeschi, presumibilmente prima del settembre 1943, e deportato in Germania, ad Amburgo.

Eppure le avevano assicurato che non sarebbe andato in guerra.

«Ero figlio di ragazza madre e mi ero da poco sposato con mia moglie Fenisia, purtroppo scomparsa sette anni fa. Per questa mia condizione, mi avevano detto che sarei stato esonerato dalla leva. Invece un giorno arrivò la temuta cartolina».

Non provò a far valere le sue ragioni?

«Allora, come si può immaginare, non c’era tanto spazio per le contestazioni. Così lasciai il mio lavoro nelle campagne di Berra dove sono nato e partii come artigliere per un luogo che non avevo mai sentito nominare e che di conseguenza non sapevo dove fosse: Fiume».

Riuscì a tornare a casa prima di essere catturato?

«Sì, solo una volta e nove mesi dopo quell’unica licenza nacque la nostra prima figlia, Giordana, che ho potuto conoscere di persona solo al ritorno dalla prigionia. Prima di allora l’avevo vista solo in qualche fotografia che mi aveva spedito mia moglie. In seguito abbiamo avuto anche un altro figlio, Vincenzo, nato nel 1946 quando la guerra era già finita».

Come era la vita durante la prigionia?

«In un primo tempo fui messo a lavorare in una acciaieria dove ho creato, tra le tante cose, anche un cucchiaio che sono riuscito a portare via e dal quale non mi sono più separato: sono 70 anni che ogni volta che mangio è sempre sulla tavola apparecchiata. Probabilmente lì si producevano anche ordigni e armi, ma io non ho mai visto quella parte di fabbrica. Poi sono stato spostato in diverse fattorie e questo mi ha permesso di riuscire a mangiare un po’ di più. Ma non sono certo ingrassato: quando sono tornato a casa facevo fatico a reggermi in piedi».

A proposito dei pasti, è vero che le fu rubata la gavetta?

«Sì, e per poter continuare a ritirare il rancio iniziai a usare un barattolo che non piacque alla guardia addetta alla mensa che me lo fece volare via colpendolo con violenza con una mano. Così potei ricominciare a mangiare solo quando finalmente riuscii a trovare una nuova gavetta dalla quale, ovviamente, non mi sono più distaccato».

Ha mai avuto paura di morire?

«Là no. Qui sì».