Isis, le redini del potere in Medio Oriente tra ideologia e fanatismo

Focus col politologo Oliver Roy, Loulowa Al Rashid dell’International crisis group e Christoph Reuter IL NOSTRO SPECIALE

I protagonisti dell’incontro

I protagonisti dell’incontro

Ferrara, 4 ottobre 2015 - Tracciare un filo rosso che ci faccia comprendere cosa sia l’Isis e chi lo governi, che ci aiuti a capire dove porterà questo califfato del terrore non è affatto semplice, ma nell’incontro ‘Chi comanda lo Stato islamico’ si è cercato di inquadrare uno degli argomenti che più sta allarmando il mondo in questi ultimi mesi. All’interno del festival di Internazionale, ieri in un teatro Comunale che ha segnato il tutto esaurito si sono confrontati l’orientalista e politologo francese Olivier Roy, Loulowa Al Rashid dell’International crisis group e Christoph Reuter che già nel 2010 – quattro anni prima della scoperta mondiale dell’Isis – aveva condotto un’inchiesta sull’organizzazione del gruppo del terrore, ora in continua espansione.

«È giusto chiamarlo Stato islamico perché – spiega il giornalista di La7 e conduttore di Piazzapulita Corrado Formigli - anche se è uno stato non riconosciuto da nessuna organizzazione internazionale ha una sua popolazione, ha le sue leggi e i suoi tribunali. Ci troviamo di fronte a un gruppo terroristico che non è sono uno stato, è un’ideologia». Un’ideologia basata sulla paura, diffusa attraverso il web, e una capacità strategica che si basa sul capire, studiare, spiare i popoli da conquistare. «Ogni nemico dello Stato islamico – continua Formigli - ha altro nemico oltre e prima dell’Isis, così la faccenda si complica. È un gioco di specchi dove lo Stato islamico non è mai il primo nemico da abbattere».

Per capire perché in poco tempo lo Stato islamico si sia diffuso senza troppi contrasti, è necessario secondo Loulowa Al Rashid tornare al 2003, in Iraq, e ripercorrere il trauma subito dalla popolazione sunnita. «Quando lo Stato iracheno ha perso le sue regioni e dopo la deposizione di Saddam Hussein – spiega -, i sunniti ce l’avevano a morte con gli americani e con chi aveva preso il potere del paese in seguito all’intervento Usa, ovvero governi sciiti. C’era quindi un risentimento sunnita, c’era una discriminazione subita, un sentirsi cittadini di seconda mano. In questo contesto lo Stato islamico, con benestare o comunque senza alcuna opposizione, ha potuto inserirsi e conquistare quei territori, perché per la popolazione sunnita l’Isis era in ogni caso – almeno allora – preferibile al governo degli sciiti».

Al Rashid sottolinea inoltre l’effetto baluardo che ha avuto l’intervento degli Stati Uniti in Iraq, tanto che da quando Obama decide di ritirare le truppe americane, c’è di fatto un’accelerazione dell’avanzata del califfato islamico. «Se vediamo l’arco della crisi in Medio Oriente – continua nel discorso Oliver Roy -, questo spazio corrisponde alle ex aree dell’impero ottomano: in gran parte dei paesi che hanno conquistato l’indipendenza, i sunniti sono in minoranza. Ciò non vuol dire che essi diano un appoggio diretto all’Isis, ma la questione è che si crea un vuoto dettato dal rancore del popolo locale sunnita, e lo Stato islamico ha qui il potere per riempire questo spazio lasciato vuoto».

Alla base dell’avanzata dell’Isis sta dunque prima di tutto una lotta fra clan, interna e secolare, che crea disarmonie interne e tensioni strutturali nella popolazione araba. Lo Stato islamico diventa sempre più potente, infatti, studiando la storia e la politica dei futuri conquistati, le dinamiche interne e i conflitti identitari. «Studiano tutto e tutti – sottolinea Christoph Reuter -: chi è potente, chi non lo è, chi è il leader, chi sono i notabili. L’Isis conosce prima gli spazi e chi è ricattabile, poi una volta che si sente potente, conquista il luogo passando all’azione con dei kamikaze, per essere sicuro di essere percepito come forte. È una strategia perfetta, forte, che non permette al popolo locale una vera resistenza. Più che in termini religiosi, agiscono in termini scientifici. Sono degli ingegneri del potere, con persone che pianificano e con altre disposte a morire».

In questo contesto, secondo il giornalista tedesco, la popolazione araba sunnita non è interessata a creare un nuovo e grande califfato che dal Marocco arrivi all’Indonesia. «La leadership ha però creato ugualmente una narrazione – continua Reuter – che rievochi il califfato islamico dei primi secoli, una storia che crei un grande impatto all’estero, per incutere terrore e per arruolare combattenti da tutto il mondo».

Sempre secondo Reuter, i ‘foreign fighters’ poco conoscono della lotta interna tra sunniti e sciiti: a loro l’Isis propone solo la teoria globale della jihad. «Si crea un’enorme contraddizione nel cuore dell’Isis, tra i miliziani che si arruolano per la guerra permanente e le popolazioni locali, che inizialmente avevano accolto lo Stato islamico come elemento stabilizzatore. Le tensioni tra queste due correnti interne sono destinate ad aumentare, soprattutto quando qualcuno fermerà l’espansione territoriale dello Stato islamico».

L’incontro si conclude considerando ciò che più terrorizza l’Occidente del califfato del terrore. «Quanto alle azioni cruente commesse di giorno in giorno dall’Isis, che rimbalzano in tutti i media – commenta Oliver Roy -, è la messa in scena della violenza. Dopo le Guerre Mondiali, in Occidente siamo abituati alle stragi di massa, mentre per noi lo shock è vedere l’uccisione di un uomo singolo. L’invio di questi video è strategica, come lo erano quelli dei narcos messicani. Anche le brigate rosse agirono allo stesso modo, forse non con lo stesso sadismo, ma se vogliamo comprendere la violenza dell’Isis dobbiamo riguardare Salò o le 120 giornate di Sodoma».

È una concezione profondamente moderna della violenza, dove i primi ad esserne affascinati siamo noi occidentali. «C’è la violenza e c’è la reazione europea. La quantità di queste efferatezze è attentamente calibrata, perché non mira a far entrare in conflitto le truppe occidentali, anzi, le scoraggia». Secondo il politologo francese, ci aspetta una grande e lunga guerra, perché «la tragedia è che nessuno vuole distruggere veramente l’Isis, tranne l’Occidente che però non manderà mai le sue truppe sul territorio».

E quanto a un attacco in Europa, «lo Stato islamico lo può fare, lo sanno fare. Hanno i media e hanno gli esplosivi, ma preferiscono attendere perché non vogliono una reazione simile a quella dell’11 settembre. Finora sono stati solo piccoli e stupidi attentati, compreso quello di Charlie Hebdo».