Omicidio Tartari, il ‘capo’ confessa: "Dovevamo salvarlo"

Nelle 4 ore di interrogatorio davanti al pm Filippo Di Benedetto ha spiegato che il pensionato picchiato e nascosto nel casolare, doveva essere liberato due giorni dopo, ma non l’hanno fatto per paura della polizia

Il casolare dove Pier Luigi Tartari è stato abbandonato, ferito,  dove è morto pochi giorni dopo

Il casolare dove Pier Luigi Tartari è stato abbandonato, ferito, dove è morto pochi giorni dopo

Ferrara, 1 dicembre 2015 – Il ‘capo’ è tornato a Ferrara. Dal carcere slovacco a quello dell’Arginone per rispondere di rapina, ricettazione ma soprattutto di omicidio volontario di Pier Luigi Tartari, il 71enne ex elettricista di Aguscello.

Estradato a due mesi dal suo arresto, ora Ivan Pajdek, alias Huber Sandor, parla. Sputa fuori la «sua» di verità, confermando la versione di Patrik Ruszo – uno dei suoi giovani soldati arrestati – ma con diversi distinguo, accusando quest’ultimo e tirando in ballo sua madre per poi annunciare che «Tartari lo dovevamo salvare due giorni dopo».

Un fiume in piena di parole spalmate nelle quattro ore di interrogatorio (ieri) davanti al pm Filippo Di Benedetto, al gip Silvia Marini, a due poliziotti della Mobile e all’avvocato Daniele Borgia.

Nove settembre, Aguscello, via Ricciarelli.

Pier Luigi Tartari torna a casa e viene aggredito da tre persone: Ivan Pajdek, Patrik Ruszo (19 anni slovacco) e Constantin Fiti (21 romeno).

«Tartari gridava, chiedeva aiuto – dice Pajdek –, l’ho spinto, l’ho buttato a terra. Fiti e Ruszo lo hanno tenuto fermo poi Patrik lo ha legato e gli ha messo un piede sulla testa».

Il pensionato viene massacrato con un tubo di ferro, perde sangue.

Ruszo «gli ha messo il nastro sulla bocca e sugli occhi per evitare che lo riconoscesse».

‘Huber’ esce con il bancomat rubato, va nella vicina Carisbo a fare un primo prelievo e «quando sono tornato gli ho tolto il nastro dalla bocca perché non respirava più».

I tre portano via quadri, fucili e la Opel Corsa di Tartari; con lui vanno in via Padova per un secondo prelievo prima di lasciarlo legato e imbavagliato in un casolare di via Vecchio Reno dove verrà trovato – grazie all’arresto di Ruszo – 17 giorni dopo privo di vita.

«Era vivo – continua Pajdek – ma gli ultimi che lo hanno visto sono stati Patrik e Constantin. Io sono rimasto fuori».

Quel maledetto casale dimenticato da Dio, il ‘capo’ lo conosceva bene perché lì nascondeva il carburante che rubava in giro per la provincia o altri oggetti. «Ma Tartari dovevamo andare a salvarlo due giorni dopo», ha spiegato ancora.

«Diedi l’ordine a Constantin e Patrik, ma loro tornarono dicendomi che c’era troppa polizia in quella zona ed erano convinti che l’avessero già trovato». Ma le bordate maggiori sono dirette alla madre di Ruszo, Ruzena Sivakova, per tutti Rosy, la badante dei vicini di Tartari. «Qualche mese prima – così Pajdek – mi disse di andare a rubare da lui perché era ricco». Non solo. «Quando ci dava il permesso, io e Ruszo andavamo a dormire nella casa dove lavorava tant’è che la figlia dell’anziana che accudiva la voleva licenziare». Verità? Invenzione? Certo è che Rosy – mai indagata fino ad oggi – ha portato gli inquirenti dritti nel nascondiglio di Pajdek, a Velky. Lì, con i proventi della Opel di Tartari che la banda doveva rivendere prima di incidentarla e abbandonarla a Mizzana, il ‘capo’ doveva comprarsi casa e cambiare vita

Nicola Bianchi